Vendite “circolari” di energia elettrica: neutralità e proporzionalità delle rettifiche IVA
Commento alla sentenza della Corte di Giustizia dell'8 maggio 2019, causa C-712/17, En.sa.
Vendite “circolari” di energia elettrica tra società del medesimo gruppo non comportano indebiti salti d’imposta ai fini IVA. È questo il principio desumibile dalla sentenza C-712/17 En.sa., con cui la Corte di Giustizia ritorna sul tema delle conseguenze derivanti, sul piano IVA, dall’indetraibilità dell’imposta afferente fatture per operazioni inesistenti.
La questione sottoposta al vaglio della Corte – non inedita, ma oggetto di numerosi (e non sempre lineari) arresti – attiene, in particolare, all’asimmetria esistente tra diniego della detrazione e debenza dell’IVA indebitamente fatturata.
Nel giudizio di rinvio (CTR Lombardia, sez. I, ord. n. 1714 del 9 ottobre 2017, dep. il 10 novembre 2017), la CTR di Milano si trova a dirimere una controversia avente ad oggetto distinti avvisi di accertamento emessi a carico della En.sa S.r.l., società del gruppo Green Network asseritamente coinvolta in un “giro” di false fatturazioni relative a cessioni di energia elettrica, “poste in essere, nell’ambito del gruppo … per esporre nella propria contabilità valori importanti al solo fine di accedere a canali bancari e di finanziamento”. Le operazioni di compravendita di energia elettrica poste in essere dalla contribuente sarebbero state, più nel dettaglio, “apparentemente eseguite da società spesso senza dipendenti”, ma di fatto riconducibili ad un “unico soggetto”, avrebbero riguardato “le stesse quantità di energia” ed avrebbero avuto carattere “circolare”, dal momento che “la merce partiva da un fornitore per tornare allo stesso fornitore”.
Tramite le descritte operazioni le società del gruppo Green Network (e, con esse, la contribuente En.sa.) non avrebbero conseguito particolari vantaggi sul piano fiscale (avendo regolarmente versato l’IVA dovuta a fronte delle cessioni fittizie di energia elettrica), ma avrebbero avuto accesso a “canali di finanziamento altrimenti non accessibili”.
Pur nell’assenza di rischi di perdita di gettito erariale, in sede di rettifica l’Agenzia delle Entrate aveva comunque:
– disconosciuto la detrazione esercitata da En.sa.;
– negato il rimborso della maggiore imposta corrisposta dalle società del gruppo a fronte delle cessioni fittiziamente poste in essere;
– irrogato sanzioni pari al 100% dell’IVA indebitamente detratta, ai sensi dell’art. 6, comma 6, d.lgs. n. 471/1997 (ratione temporis vigente).
A fronte del “plurimo” recupero d’imposta operato dall’Ufficio (una prima volta, con il disconoscimento della detrazione esercitata nell’ambito della catena di operazioni poste in essere e per ciascuna di esse; una seconda volta, con il mancato rimborso dell’IVA di volta in volta versata dall’emittente delle false fatture) e della connessa irrogazione di sanzioni pari al 100% dell’IVA detratta, la Corte di Giustizia è stata chiamata a stabilire se la rettifica condotta dall’Agenzia delle Entrate fosse compatibile con i principi di proporzionalità e neutralità dell’IVA.
Escluso che il carattere “circolare” delle operazioni potesse di per sé solo ostare al recupero operato dall’A.f., la Corte di Giustizia ha osservato, per altro verso, che le previsioni poste a fondamento della rettifica – i.e., l’art. 19 e l’art. 21, comma VII, d.p.r. n. 633/1972 – sono, di norma, destinate a trovare applicazione nei confronti di distinti soggetti passivi d’imposta.
Se, dunque, in una situazione “ordinaria”, ben si giustifica il fatto che, da un lato, l’emittente della fattura continui ad essere debitore dell’IVA indebitamente fatturata, e, dall’altro, il destinatario del documento non possa vantare alcun diritto di detrazione dell’imposta assolta o addebitata dalla controparte, la peculiare circostanza per cui, nel caso esaminato, le prescrizioni “stabilite agli articoli 168 e 203 della direttiva IVA si impongono congiuntamente al medesimo operatore” non può essere in alcun modo trascurata, potendo ragionevolmente comprovare l’insussistenza di un effettivo rischio di perdita di gettito erariale.
Valorizzando tale circostanza, quale canone imprescindibile per stabilire se l’azione accertatrice dell’A.F. (e più in generale, le misure legislative adottate da uno Stato membro) sia conforme al principio di proporzionalità, la Corte è giunta alla conclusione per cui il diniego della detrazione, nella fattispecie oggetto di giudizio, potesse ritenersi legittimo e compatibile con la Direttiva IVA solo laddove la En.sa. fosse parallelamente in condizione di recuperare l’IVA indebitamente fatturata nell’ambito delle medesime operazioni (“circolari”) contestate dall’ufficio.
Il punto di equilibrio del sistema è stato, dunque, individuato dalla Corte di Giustizia nella possibilità – che gli Stati membri sono tenuti ad accordare ai soggetti passivi – che l’imposta indebitamente fatturata possa essere rettificata o rimborsata in caso di diniego della detrazione. Ciò, finanche nell’ipotesi in cui l’emittente e/o il destinatario della fattura non abbiano agito in buona fede e allorquando l’Agenzia delle Entrate abbia disconosciuto, con accertamento divenuto definitivo, la detrazione esercitata dal cessionario.
Anche con riferimento al profilo delle sanzioni irrogate a carico della En.sa. ai sensi dell’art. 6, comma 6, d.lgs. n. 471/1997 la soluzione offerta dalla Corte si fonda sulla diretta applicazione del principio di proporzionalità.
Facendo leva su una concezione strettamente “teleologica” e “finalistica” della sanzione, quale mezzo approntato dall’ordinamento tributario nazionale per la corretta riscossione del tributo, i Giudici lussemburghesi rilevano, in primo luogo, che una sanzione che non risulti parametrata all’effettivo danno erariale – e non tenga, cioè, conto della maggiore IVA corrisposta all’Erario, a fronte dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti – non possa di per sé ritenersi compatibile con il principio di proporzionalità, eccedendo quanto necessario per perseguire l’obiettivo prefissato; obiettivo che, in particolare, potrebbe essere conseguito pienamente – e coerentemente con la Direttiva IVA – solo valutando il risultato complessivo dell’operazione (i.e., la compensazione del “danno” derivante dall’indebita detrazione con la maggiore IVA incassata dall’Erario a fronte dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti) e la concreta attitudine della condotta posta in essere dalla contribuente a determinare una perdita di gettito erariale.
D’altro canto, proprio alla luce della ratio e degli obiettivi della Direttiva IVA, una sanzione come quella irrogata nel procedimento principale e parametrata all’intero importo dell’imposta indebitamente detratta, vanifica e sterilizza gli effetti dell’obbligo di rettifica delle somme indebitamente versate all’Erario posto a carico degli Stati membri e, pertanto, si rivela – ad avviso della Corte – in contrasto con lo stesso principio di neutralità dell’IVA.
Nell’ottica “sostanzialistica” della Corte di Giustizia è, dunque, indifferente, in altri termini, la circostanza per cui la repressione della condotta contestata al contribuente avvenga tramite l’impiego di una misura “sanzionatoria” (anziché con il contestuale disconoscimento della detrazione e del diritto al rimborso della maggiore IVA versata), dovendosi ritenere in ogni caso incompatibile con la Direttiva un accertamento che comporti l’esborso di somme tali da assorbire gli effetti dell’obbligo di rettifica dell’imposta indebitamente fatturata posto a carico dell’A.f..
Ne deriva, per tale via, l’illegittimità, per contrasto con i principi di proporzionalità e neutralità dell’IVA, dell’art. 6, comma 6, d.lgs. n. 471/1997 (nella versione ratione temporis vigente), laddove non prevede che l’importo della sanzione prevista per l’indebita detrazione d’imposta sia parametrato all’effettivo danno subito dall’Erario.