La Cassazione rinvia alla Corte Costituzionale la questione di legittimità del termine di prescrizione del recupero delle accise sull’energia elettrica in caso di comportamenti omissivi
Nota a Cass., ord. 28 febbraio 2020, n. 5483
Con l’ordinanza n. 5483 del 28 febbraio 2020 la Corte di Cassazione, sezione tributaria, ha rinviato alla Corte Costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità dell’art. 57, comma 3, secondo periodo TUA, in materia di termine di prescrizione del recupero delle accise sull’energia elettrica in caso di comportamenti omissivi del contribuente, nella parte in cui non prevede una data certa di inizio della decorrenza del termine.
L’art. 57, comma 3, TUA individua i termini di prescrizione per il recupero dell’accisa sull’energia elettrica. Gli stessi termini si applicano all’irrogazione delle relative sanzioni, a causa del rinvio fatto dall’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 472/1997, al termine per l’accertamento dell’imposta. Il primo periodo del comma 3 prevede un termine ordinario, che è di cinque anni dalla data in cui è avvenuto il consumo (per l’interpretazione di questa norma da parte di altra giurisprudenza della Cassazione, v. altro contributo su questo sito). Il secondo periodo, quello che qui interessa, prevede che “in caso di comportamenti omissivi la prescrizione opera dal momento della scoperta del fatto illecito.”
La sentenza di merito impugnata dinanzi la Cassazione aveva interpretato questa disposizione nel senso che essa disciplina il momento consumativo della prescrizione, in analogia con quanto previsto dall’art. 2962 cod. civ. (“… la prescrizione si verifica quando è compiuto l’ultimo giorno del termine”): in altre parole, secondo la Commissione tributaria regionale nel momento della scoperta del fatto illecito il termine prescrizionale deve considerarsi decorso, dovendosi attribuire al termine “opera” il significato di “è compiuta”. Si tratta di una interpretazione non condivisibile, come giustamente rileva l’ordinanza annotata; a tacer d’altro, essa irragionevolmente comprime, riducendolo a zero, il termine a disposizione dell’amministrazione per il recupero fiscale una volta che l’illecito sia stato constatato. Tuttavia, una tale interpretazione mette l’accento su un punto, che è quello su cui si sofferma l’ordinanza e che è stato ora devoluto alla Corte Costituzionale: se tale norma non disciplina lo spirare della prescrizione, ma l’inizio del suo decorso, non vi è alcun aggancio del termine al momento in cui è insorta l’obbligazione tributaria.
Due premesse prima di affrontare il tema.
La prima è che una disposizione analoga a quella in esame era originariamente contenuta nell’art. 15, comma 1, TUA, la quale come noto è la norma generale in tema di prescrizione in materia di recupero delle accise, derogata con riferimento all’accisa sull’energia elettrica dall’art. 59 qui in esame. L’art. 15 è stato sostituito, da ultimo, dal d.l. n. 193/2016 e questa disposizione è stata eliminata. Come si vedrà, l’ordinanza si sofferma anche su tale questione.
La seconda è che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 29204/2019), non un qualsiasi comportamento omissivo rileva ai fini della disposizione in esame (ovvero di quella, analoga, una volta contenuta nell’art. 15 TUA), ma solo quei comportamenti (tra cui non rientra il semplice mancato assolvimento dell’imposta) consistenti nel “mancato compimento di una specifica attività, prevista per legge, che non ha consentito alla pubblica amministrazione di procedere alla conseguente attività di controllo”. Anche questo aspetto viene considerato nell’ordinanza qui commentata.
La fattispecie oggetto dell’ordinanza è quella di omessa denuncia preventiva di attivazione di un’officina di produzione di energia elettrica, punita con sanzione amministrativa dall’art. 59, comma 1, lett. a) TUA. Si tratta di una fattispecie per la quale pacificamente si applica l’art. 57, comma 3, secondo periodo TUA, con la conseguenza che la prescrizione del recupero delle accise e dell’irrogazione delle sanzioni
“non poteva che ritenersi decorrente dalla scoperta di tali ‘comportamenti omissivi’, atteso che il significato letterale della locuzione ‘opera dal momento’ … non può che essere inteso come equipollente della locuzione ‘decorre dalla data’, in termini lessicalmente variati, ma del tutto omologhi nel significato, rispetto a quelli utilizzati nella prima parte della medesima disposizione.”
Ciò in quanto la norma mira ad evitare l’impunità che conseguirebbe alla mancata o tardiva scoperta del comportamento omissivo.
Senonché – osserva la Corte – da ciò consegue che
“la decorrenza della prescrizione non ha un ‘termine iniziale’ determinato ovvero determinabile, sicché il contribuente, pur infedele, rimane indefinitamente soggetto alla ‘condizione sospensiva legale’ della ‘scoperta della sua originaria omissione dichiarativa, essendo appunto solo questo ‘fatto naturalistico’ idoneo a far decorrere il termine prescrizionale”.
Di qui la conseguenza che – ad avviso della Cassazione – l’art. 57, comma 3, secondo periodo TUA viola gli artt. 3 e 24 Cost., sotto i profili
“della disparità di trattamento, dell’intrinseca – manifesta – irragionevolezza e del mancato rispetto del principio della certezza dei rapporti giuridici”.
Ed infatti, per quanto concerne l’art. 3 Cost., nelle disposizioni fiscali riguardanti altre imposte (che costituiscono il tertium comparationis) il termine – sia pure di decadenza e non di prescrizione – è sempre ricollegato al momento di consumazione dell’illecito tributario omissivo (per es. omessa dichiarazione), e non ad una
“azione accertatrice/sanzionatoria temporalmente indefinita dell’Ente accertatore.”
Ed inoltre – come si è sopra osservato – una analoga previsione contenuta nell’art. 15 TUA è stata abrogata, per cui non si comprende perché solamente per le accise sull’energia elettrica e non per tutte le altre accise debba applicarsi questa più gravosa disciplina. Disciplina che, inoltre, viola il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., come già sancito dalla Corte Costituzionale (sent. n. 280/2005) in un diverso caso, che però è assimilabile all’attuale perché prevedeva che contribuente fosse assoggettato per un tempo indefinito all’azione di accertamento dell’Amministrazione.
Di qui la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità dell’art. 57, comma 3, secondo periodo TUA
“nella parte in cui non prevede una data certa di inizio della decorrenza del termine”.
Data che, secondo l’argomentare della Cassazione, dovrebbe essere quella prevista dalla legge per l’effettuazione del comportamento omesso.
Ad avviso di chi scrive, la questione posta appare ben fondata e suscettibile di accoglimento da parte della Corte Costituzionale, anche sulla base di sue precedenti pronunce.
La sentenza citata dalla Cassazione (n. 280/2005) ha ritenuto illegittima la allora vigente disciplina della notifica della cartella di pagamento nella parte in cui prevedeva un termine (di decadenza) privo del dies a quo ed ha rimesso al legislatore di indicare il termine iniziale di decorrenza sulla base di criteri indicati dalla stessa Corte Costituzionale. Ed in effetti, l’indefinita soggezione del contribuente al potere di recupero dell’imposta e di irrogazione delle sanzioni appare contraria ai più elementari principi di certezza delle situazioni giuridiche, nonché foriera di illegittime compressioni del diritto di difesa se l’attività amministrativa di controllo avviene dopo che siano scaduti i termini di legge per la conservazione dei documenti fiscali. Senza che a ciò possa opporsi, deve aggiungersi con specifico riferimento alla fattispecie qui in esame, una particolare gravità del comportamento omissivo del contribuente[1]: invero rientra tra gli ordinari compiti di controllo affidati alle amministrazioni fiscali quello di individuare i contribuenti che hanno omesso gli adempimenti prescritti, anche occultando completamente i fatti imponibili.
Ma il tema è stato trattato dalla Corte Costituzionale, nonché dalla giurisprudenza di legittimità, anche con riferimento a norme fiscali più prossime a quelle in materia di accise. In particolare, l’art. 84, comma 2, TULD dispone che
“Qualora l’obbligazione avente ad oggetto i diritti doganali sorga a seguito di un comportamento penalmente perseguibile, il termine per la notifica dell’obbligazione doganale è di sette anni”.
Questa disposizione, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, rende indeterminabile e “dilatabile all’infinito” il periodo intercorrente tra l’esigibilità del tributo doganale e la data di definitività della pronuncia penale, con la conseguenza di rendere “privo di riferimento temporale” il termine per la revisione dei dazi[2]. Per questo motivo, la giurisprudenza ha interpretato la norma nel senso che essa è applicabile solo se la notitia criminis è stata formulata nell’ordinario termine prescrizionale di tre anni. È evidente, anche in questo caso, l’esigenza – di cui dà positivamente atto la Corte Costituzionale – di porre un termine, certo, all’esercizio dell’azione fiscale di recupero.
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[1] Cass. n. 29204/2019, sopra citata, ha affermato con riferimento all’art. 57, comma 3, secondo periodo TUA che “è proprio il mancato compimento di un’attività prevista per legge che non ha consentito all’amministrazione di procedere ai conseguenti controlli che giustifica, nella valutazione operata dal legislatore, uno spostamento del dies a quo del termine di prescrizione, parametrato in relazione al momento dello scoprimento del fatto illecito”. Tuttavia in questa occasione i giudici non si sono posti la questione di legittimità della norma poiché l’hanno ritenuta inapplicabile al caso sottoposto al loro esame.
[2] Così, in un obiter dictum, C. Cost. n. 247/2011, ove riferimenti ai precedenti della Cassazione.