28/12/2020

La sezione tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15135 del 16 luglio 2020, ha affermato che la disposizione di cui all’art. 21, comma 9, del D.lgs. n. 504/1995 (TUA) − il quale sottopone ad accisa “per motivi di politica ambientale” i prodotti energetici utilizzati per la produzione di energia elettrica − è pienamente compatibile con la normativa comunitaria di riferimento e, in particolare, con la deroga espressamente contemplata dall’art. 14, paragrafo 1, lett. a), della direttiva 2003/96/CE.

La finalità ambientale della norma interna, infatti, si ritiene chiaramente esplicitata nel suo testo di legge, in perfetta sintonia e concordanza lessicale con quella unionale.

 

La controversia su cui la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi trae origine dal diniego opposto ad un contribuente dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli al rimborso dell’accisa versata per gli anni 2011 e 2012 sui prodotti energetici, nello specifico sul carbone destinato alla produzione di energia elettrica.

La Società ricorrente − produttrice di energia elettrica – fondava la propria richiesta di restituzione dell’accisa assolta sulla presunta incompatibilità della disposizione interna relativa al suddetto tributo, l’art. 21, comma 9, del del D.lgs. n. 504/1995 (TUA), con l’art. 14, par. 1, lett. a), della Direttiva n. 2003/96 CE, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici ed è dotata di natura “self executing”.

 

Il richiamato art. 14, par. 1, lett. a), della Direttiva n. 2003/96 CE stabilisce, come regola generale, l’esenzione dalla tassazione per i prodotti energetici utilizzati per la produzione di energia elettrica. Sempre la stessa norma, tuttavia, prevede una deroga al richiamato principio, laddove riconosce agli Stati membri la facoltà di tassare i medesimi prodotti “per motivi di politica ambientale”.

Il legislatore nazionale si è avvalso di tale facoltà e con l’art. 1, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 26/2007 – con cui è stata data attuazione nell’ordinamento italiano alla direttiva n. 2003/96 a partire dal 1° giugno 2007 – ha introdotto la previsione di cui al richiamato art. 21, comma 9, TUA, ai sensi del quale:

I prodotti energetici di cui al comma 1, qualora utilizzati per la produzione, diretta o indiretta, di energia elettrica con impianti obbligati alla denuncia prevista dalle disposizioni che disciplinano l’accisa sull’energia elettrica, sono sottoposti ad accisa per motivi di politica ambientale, con l’applicazione delle aliquote stabilite per tale impiego nell’allegato I“.

Ad avviso della ricorrente, la finalità ambientale della norma nazionale non risulterebbe adeguatamente motivata, non potendosi considerare sufficiente, in tal senso, una mera indicazione legislativa della finalità asserita, ma occorrendo, invece, una motivazione specifica della scelta nazionale. Secondo tale e più rigorosa impostazione, la presenza di uno specifico motivo ambientale − quale eccezione alla regola generale dell’esenzione − dovrebbe essere interpretata restrittivamente ed in base al principio di proporzionalità, con la conseguenza che la deroga non poteva essere consentita attraverso un generico richiamo al motivo di politica ambientale ed al rispetto del limite minimo di tassazione fissato a livello Europeo, dovendo, piuttosto, lo Stato membro motivare adeguatamente la sua scelta per uno scopo non puramente di bilancio e dimostrare che la doppia tassazione conduceva ad un beneficio ambientale concreto più elevato di quello che avrebbe ottenuto senza la tassazione dei prodotti energetici.

 

Per contro, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli sosteneva che la finalità di politica ambientale fosse chiaramente esplicitata nella normativa interna attraverso l’espressione letterale “per motivi ambientali”, contenuta sia nel testo di legge dell’art. 21, comma 9, TUA, sia nel punto 11 della Tabella A, TUA − che ammette la tassazione per motivi ambientali dei prodotti energetici utilizzati per la produzione di energia elettrica − nonché nei lavori preparatori al D.Lgs. n. 26/2007, di recepimento della Dir. n. 2003/96.

Al riguardo, la Corte di Cassazione – nel respingere il ricorso della Società contribuente – rileva, in primo luogo, che la finalità di politica ambientale della tassazione del carbone, oggetto della controversia, è esplicitata dalla legge interna in perfetta sintonia e concordanza anche di espressione lessicale con quella usata dalla Direttiva, mentre

“la necessità che la legge interna contenga, nel dettato normativo, una motivazione specifica di tale finalità ed addirittura la prova che la finalità sarebbe stata raggiunta appare al di fuori di qualsiasi logica”.

Quella che (solo) all’apparenza potrebbe sembrare un’analisi frettolosa e superficiale da parte del giudice delle leggi, limitata ad una mera interpretazione letterale della normativa, lascia spazio, invece, ad una disamina ben più approfondita, in cui le ragioni che giustificano il rigetto della pretesa avanzata dalla ricorrente trovano fondamento e supporto in una pluralità di valide e condivisibili argomentazioni.

Ed infatti, nel proseguire il proprio ragionamento la Cassazione afferma, anche, che la finalità ambientale della norma in oggetto − oltre a trovare riscontro nella sua formulazione letterale − trova piena corrispondenza non solo negli obiettivi della citata Direttiva del 2003, ma, anche, in numerosi altri documenti attraverso i quali l’Unione europea si è fatta portavoce in sede mondiale della necessità di adottare politiche ambientali dirette a ridurre l’inquinamento.

Essa, inoltre, risulta espressamente esplicitata − e in modo più diffuso − anche in vari atti parlamentari dell’ordinamento interno, come quelli di accompagnamento al DDL relativo alla “carbon tax”. Ed infatti,  nell’iter parlamentare di esame della L. n. 448/1998 emerge il chiaro intento del legislatore nazionale di tassare i consumi del carbone per una precisa finalità ambientale, in linea con il principio “chi inquina paga” e con l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’impiego di combustibili ad alto contenuto di carbonio che, nell’allegato A del Protocollo di Kyoto, sono considerati fonti di emissione di gas serra.

 

Alla luce di tali considerazioni, quindi, i criteri di stretta interpretazione e di proporzionalità asseritamente violati, secondo la contribuente, dallo Stato italiano sono, invece, per la Corte pienamente rispettati dalla legge di cui si tratta, considerato che

è la direttiva comunitaria a prevedere ex se che le misure in deroga rientranti nella facoltà degli stati membri erano proporzionali alle finalità che la direttiva intendeva perseguire” e che, nel caso in esame, la norma interna “è nata dopo un percorso ricco di approfondimenti e studi specifici orientati alle problematiche ambientali e per finalità puramente ambientali”.

In secondo luogo, la Corte di Cassazione, attraverso la sentenza in rassegna, respinge l’ulteriore argomentazione sostenuta dalla ricorrente, secondo cui la disposizione dell’art. 21, comma 9, TUA, per essere conforme alla normativa comunitaria, non dovrebbe avere una finalità “fiscale”, ma dovrebbe avere esclusivamente quella ambientale. Anche tale assunto non trova alcun riscontro nella Direttiva 2003/96/CE, la quale prevede proprio l’utilizzazione dello strumento fiscale – e, cioè, di una disposizione che tassa il prodotto inquinante, nella specie in carbone, il cui carattere inquinante non è mai stato posto in discussione dalla ricorrente – al fine di disincentivarne l’uso.

Al riguardo è stabilito, anche, che

“la Direttiva prende atto della finalità di politica ambientale da raggiungere attraverso la norma fiscale ed il disincentivo collegato alla tassazione, per cui la pretesa di richiedere esclusivamente una finalità ambientale ad una norma che è fiscale e che, sia pure come strumento per raggiungere un diverso fine, è sempre una norma fiscale, appare privo di senso logico”.

In terzo luogo, la sentenza respinge, anche, i dubbi interpretativi avanzati dalla ricorrente sui contenuti della Direttiva comunitaria e, in particolare, sulla pretesa discrezionalità “limitata” concessa agli Stati membri. Ad avviso della Suprema Corte, appare improponibile che la discrezionalità nazionale possa essere limitata alla politica del singolo Paese − come se il potere inquinante di un certo prodotto potesse variare in relazione ai singoli Stati – in quanto è di tutta evidenza che la scelta della Direttiva si orienta nel senso di riservare ai singoli Paesi l’attuazione di politiche adeguate al contesto nazionale, nel rispetto delle scelte adottate dal legislatore dell’unione a livello Europeo.

Al riguardo, merita di essere sottolineato come ciò che, invece, non risulta consentito allo  Stato membro − e che, quindi, costituisce un limite – è, come nel caso delle addizionali locali, introdurre deroghe il cui scopo sia, in realtà, esclusivamente quello di incrementare il gettito fiscale, dovendo avere la disposizione finalità ambientali da perseguire attraverso una norma sì fiscale, ma anche in grado di disincentivare concretamente le emissioni di CO2. Ed infatti, lo Stato membro ha il dovere di evitare che le imposizioni indirette − aggiuntive rispetto alle accise armonizzate − ostacolino indebitamente gli scambi, con la conseguenza che devono essere disapplicate quelle disposizioni aventi come unica finalità una mera esigenza di bilancio degli enti locali.

 

Da ultimo, e proprio a tale proposito, la Suprema Corte si sofferma su un noto precedente, rappresentato dalla sentenza n. 3553 del 13 febbraio 2009, più volte invocato dalla ricorrente proprio per sostenere la natura esclusivamente fiscale della norma interna di recepimento della Direttiva di cui si tratta.

Come però evidenziato dai Supremi giudici, tale richiamo, in realtà, non gioca affatto a favore della tesi della contribuente.

Ed infatti, attraverso la citata pronuncia è stata, sì, sancita l’insostenibilità della tesi della natura “ambientale” dell’accisa in questione, ma non con riferimento all’attuale quadro normativo qui esaminato – relativo, quindi, alla deroga prevista dall’art. 21, comma 9, del T.U.A. introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. d) del d.lgs. 2 febbraio 2007, n. 26 con cui è stata data attuazione nell’ordinamento italiano alla direttiva n. 2003/96 − bensì con riferimento e in relazione ad una norma univocamente tributaria e preesistente alla direttiva comunitaria appena citata, cui lo stato italiano pretendeva impropriamente di attribuire natura ambientale senza avere dato nessuna comunicazione in ordine all’eventuale mantenimento della stessa od all’adozione di altra norma per fini di “politica ambientale”.

Il riferimento è alla legge vigente nel sistema italiano ante recepimento della Direttiva n. 2003/96 e, in particolare, all’art. 8 della L. 448/1998, norma che ha previsto gli aumenti intermedi delle aliquote di accise con lo scopo di ridurre le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’impiego di oli minerali. Poiché, tuttavia, la finalità ambientale sottesa a tale disposizione è rimasta, in realtà, inattuata nel nostro ordinamento − così come riconosciuto sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea all’esito di una procedura di infrazione aperta nei confronti dello stesso Stato italiano e come ulteriormente asseverato dalla stessa Suprema Corte di Cassazione − essa è stata dichiarata non conforme alla normativa comunitaria e, quindi, inidonea a costituire una valida deroga al principio generale di esenzione da accisa dei prodotti destinati alla produzione di energia elettrica.

I contenuti della sentenza n. 3553 del 13 febbraio 2009 appena illustrati sono stati incidentalmente esaminati, anche, da una significativa pronuncia di legittimità (Cass n. 19272 del 16 settembre 2020) − intervenuta successivamente a quella qui in rassegna e oggetto di approfondito commento in un altro contributo del presente blog (“Non è dovuta la prestazione di garanzia per l’importazione di oli vegetali destinati alla produzione di energia elettrica”, a cura di Livia Salvini), al quale si rinvia per una lettura integrale – con cui la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema dell’esenzione da accisa dei prodotti energetici destinati alla produzione di energia elettrica, in questo specifico caso degli oli vegetali.

Con particolare riferimento a tale e distinta tipologia di prodotto la Suprema Corte, ripercorsa la normativa vigente in materia − tra cui, anche, i contenuti dell’art. 14, par. 1, lett. a), della Direttiva self executing n. 2003/96 CE −, ha affermato che gli oli vegetali sono esenti da accisa, ma solo in quanto siano destinati alla produzione di energia elettrica, essendo invece assoggettati all’imposta quando destinati alla combustione per riscaldamento o per motori (art. 21, comma 1, lett. a) TUA).  L’esenzione è, in particolare, disposta attualmente dall’all. I al TUA come modificato dall’art. 1, comma 631, d.l. n. 162/2019 e, precedentemente, dalla voce 11 della tab. A all. al TUA. Come prevede l’art. 21, comma 3, TUA, essi sono quindi assoggettati ad accisa solo

“qualora siano utilizzati, o destinati ad essere utilizzati, come carburanti per motori o combustibili per riscaldamento ovvero siano messi in vendita per i medesimi utilizzi”.

Dall’insussistenza dell’obbligo di pagamento dell’accisa per gli oli vegetali qualora – come nel caso di specie − destinati alla produzione di energia elettrica, la Suprema Corte fa derivare, in via del tutto consequenziale, anche la mancanza dei presupposti per la prestazione della garanzia fideiussoria richiesta al contribuente dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ai sensi dell’art. 21, comma 7, TUA.

Per l’effetto, viene sancito il pieno diritto ad ottenere il rimborso degli oneri sostenuti per tale prestazione.

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