28/01/2021

La sentenza 30 settembre 2020, n. 20818 della Suprema Corte di Cassazione è l’occasione per fare il punto sui presupposti e sui limiti dell’onere “informativo” previsto dall’art. 29, commi 2 e 4 della L. n. 428 del 1990.

La controversia riguardava il giudizio instaurato da un contribuente nei confronti dell’Agenzia del Dogane per il rimborso del credito di imposta derivante dall’eccedenza degli acconti versati a titolo di addizionali provinciali sull’energia elettrica rispetto alla definitiva determinazione del debito di imposta operato dal contribuente in sede di dichiarazione annuale relativa all’anno 2011; tale credito, non potendo più essere compensato con i versamenti afferenti gli anni successivi, in ragione della soppressione del tributo intervenuta con decorrenza 2012, è stato chiesto a rimborso con apposita istanza, ex art. 14, comma 2 del d.lgs. n. 504/1995 (Testo unico accise – TUA).

Eccezione preliminare opposta dall’Agenzia delle Dogane ed accolta dai giudici di seconde cure è stata che la richiesta di rimborso avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile in ragione della omessa trasmissione di copia dell’istanza (anche) all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente per la presentazione della dichiarazione dei redditi nell’esercizio di competenza, ai sensi della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 29, comma 4; tale omissione non sarebbe sanabile oltre il termine di decadenza di cui all’art. 14, comma 2, TUA.

Dispone, in particolare, l’art. 29, comma 2 della L. n. 428 del 1990, che “i diritti doganali all’importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti, circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni”.

Prevede a sua volta il successivo comma 3, dello stesso articolo che: “Il D.L. 30 settembre 1982, n. 688, art. 19, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 novembre 1982, n. 873, è applicabile quando i tributi riscossi non rilevano per l’ordinamento comunitario”.

Stabilisce infine, il comma 4, che “la domanda di rimborso dei diritti e delle imposte di cui ai commi 2 e 3, quando la relativa spesa ha concorso a formare il reddito d’impresa, deve essere comunicata, a pena di inammissibilità, anche all’ufficio tributario che ha ricevuto la dichiarazione dei redditi dell’esercizio di competenza”.

Sul punto la Suprema Corte, con la sentenza in questa sede in analisi, ha fissato i seguenti principi di diritto:

“In materia di rimborsi di imposte di consumo, quali sono le addizionali provinciali alle accise sull’energia elettrica di cui al D.L. n. 511 del 1988, art. 6, la disciplina prevista dalla L. n. 428 del 1990, art. 29, – che distingue tra il pagamento effettuato in applicazione di norme nazionali in contrasto con il diritto unionale (comma 2), e il pagamento effettuato in ragione di una errata o inesatta applicazione delle regole interne (comma 3), – ha carattere omnicomprensivo e prende, pertanto, in considerazione tutte le possibili azioni di rimborso, applicandosi sia alle azioni di ripetizione delle imposte di consumo basate sulla violazione del diritto comunitario, sia a quelle basate sul solo diritto nazionale”;

“L’azione di ripetizione delle addizionali provinciali alle accise sull’energia elettrica di cui al D.L. n. 511 del 1988, art. 6, prevede che, quando la spesa ha concorso alla formazione del reddito, l’istanza di rimborso sia comunicata, a pena di inammissibilità, all’Agenzia delle entrate, proprio in ragione dei riflessi sui redditi dichiarati dell’esercizio di competenza”;

“La comunicazione all’Agenzia delle entrate …: a) deve essere normalmente coeva alla richiesta di rimborso e, in ogni caso, deve essere effettuata prima del provvedimento di diniego dell’Agenzia delle dogane; b) in assenza di comunicazione all’Agenzia delle entrate l’istanza di rimborso inammissibile può sempre essere riproposta; c) va, in ogni caso, rispettato il termine di decadenza biennale di cui al TUA, art. 14, comma 2, (cfr. Cass. n. 13087 del 2012, cit.)”.

Il primo principio di diritto affermato con la sentenza in commento – nello stabilire la portata “generalizzata” dell’onere di comunicazione di cui alla legge n. 428/1990 – non è certo nuovo nei pronunciamenti della Corte, anche con riferimento alle azioni di ripetizione delle imposte di consumo basate sulla violazione delle sole norme del diritto nazionale. Parziale elemento di novità – solo sotto il profilo circostanziale – è l’esplicito riconoscimento della operatività del predetto onere anche con riferimento  alle addizionali provinciali.

La richiamata sentenza fornisce però lo spunto per meglio “fissare” presupposti e limiti dell’adempimento di cui al predetto art. 29, comma 4 della legge n. 428/1990.

Ed invero, prevede espressamente il richiamato comma 4 dell’art. 29, come si è visto, che la comunicazione dell’istanza di rimborso di un’accisa incompatibile con la normativa comunitaria o interna (anche) al competente Ufficio dell’Amministrazione finanziaria che ha ricevuto la dichiarazione dei redditi debba essere effettuata soltanto quando la relativa spesa abbia concorso a formare il reddito di impresa.

La ratio del predetto onere “informativo” è evidentemente quella di partecipare all’Agenzia delle Entrate una situazione di potenziale rischio (futuro), ossia quella del soggetto passivo d’accisa che, dopo aver portato in deduzione una componente negativa di reddito d’impresa pari all’accisa riversata all’Erario, in un successivo periodo di imposta ottenga la restituzione del tributo, senza tuttavia correlativamente recuperarlo a tassazione. Si legge anche nella sentenza in analisi,

la “ratio legis” complessiva è data dalla necessità che, avviata la procedura di rimborso delle imposte di consumo presso la competente Agenzia delle dogane, anche l’Agenzia delle entrate debba essere informata per i riflessi sui redditi dichiarati dell’esercizio di competenza

Da tale impostazione sembra legittimo trarre la conseguenza che, laddove il costo sostenuto per il pagamento dell’accisa (o dell’addizionale) di cui si chiede il rimborso non abbia concorso a formare il reddito del fornitore – in senso riduttivo del relativo imponibile fiscale – in quanto lo stesso tributo è stato riaddebitato al consumatore finale nell’esercizio del diritto di rivalsa ed il relativo costo sia stato quindi “sterilizzato” dalla correlativa traslazione, nessun onere comunicativo possa legittimamente configurarsi.

In tale ipotesi, il paventato rischio di “salti di imposta” non può, infatti, concretarsi, in quanto il costo originariamente sostenuto e dedotto a fronte del sostenimento dell’accisa ha trovato, appunto, come propria contropartita, nell’ambito del medesimo periodo di imposta, l’appostamento di un correlativo ricavo a titolo di accisa addebitata in rivalsa nei confronti del consumatore finale. Specularmente, nell’annualità ancora futura e incerta di percezione del rimborso, l’erogazione del rimborso non darà luogo ad una sopravvenienza attiva tassabile.

La correttezza di tale impostazione ha trovato la propria conferma in un altro precedente della Suprema Corte esattamente in terminis.

Ci si riferisce in particolare a Cass. 31 ottobre 2019, n. 28063, nella quale è stato statuito:

“La disposizione che rileva, L. n. 428 del 1990, art. 29, prevede … al comma 2, che “i diritti doganali all’importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti”; si aggiunge poi al comma 4, che “la domanda di rimborso dei diritti e delle imposte di cui ai commi 2 e 3, quando la relativa spesa ha concorso a formare il reddito d’impresa, deve essere comunicata, a pena di inammissibilità, anche all’ufficio tributario che ha ricevuto la dichiarazione dei redditi dell’esercizio di competenza”; Orbene, è di tutta evidenza come debba escludersi che l’addebito ai clienti dell’ addizionale in oggetto, da parte della ricorrente che agisce come grossista immettendo in consumo, possa rilevare ai fini della determinazione del reddito d’impresa. Tale addizionale , in effetti, costituisce mera partita di giro come somma di terzi “in transito”, la cui collocazione nelle scritture contabili della contribuente società non provoca – correttamente – alcuna rilevanza sulla determinazione dell’utile o della perdita civilistica, o sulle variazioni TUIR, ex art. 83, dalle quali discende la determinazione dell’utile o della perdita a fini tributari”.

Specifica ancora più chiaramente l’ordinanza di Cass. 23 luglio 2019, n. 19811: “l’inciso contenuto nel quarto comma della previsione normativa in esame, secondo cui, ai fini del diritto al rimborso il contribuente deve, a pena di inammissibilità, fare la comunicazione dell’istanza anche all’Agenzia delle entrate, quando la relativa spesa ha concorso a formare il reddito di impresa, deve essere letto e interpretato alla luce di quanto disposto dal comma secondo, che esclude il diritto al rimborso nel caso di traslazione dell’onere su altri soggetti, posto che è evidente che solo nel caso in cui non sìa avvenuta la suddetta traslazione può ragionarsi in termini di incisione del pagamento dell’accise versate sul reddito di impresa, con conseguente diritto al rimborso”.

Facendo applicazione di tali principi nel caso di specie, appare evidente che una interpretazione della norma conforme alla sua ratio comporta che in una ipotesi, come quella ipotizzata, in cui nessuna sopravvenienza attiva tassabile sarà destinata a realizzarsi all’atto del conseguimento del rimborso, in ragione dell’avvenuta traslazione del correlativo costo, nessun onere di comunicazione può legittimamente essere configurato.

Non è, infatti, il mero concorrere della spesa alla formazione del reddito di impresa dell’anno di sostenimento del costo a giustificare l’adempimento ma la specifica necessità che tale deduzione abbia concorso a ridurre il reddito imponibile e sia conseguentemente destinata a riflettersi sulla successiva manifestazione di una sopravvenienza attiva tassabile.

La correttezza di tale impostazione – volta a limitare l’operatività della sanzione dell’inammissibilità nelle sole ipotesi in cui l’adempimento informativo risulti rispondente alle esigenze sottese alla sua ratio ispiratrice – trova la propria ulteriore conferma alla luce della più recente giurisprudenza della Suprema Corte che postula che le ipotesi di inammissibilità dei rimedi giurisdizionali siano interpretate restrittivamente, anche nel rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Si statuisce ex multis fin dalla risalente Cass., SS.UU., sent. n. 3117 del 2006 che:

Una corretta interpretazione … non può comunque … prescindere dai vincoli derivanti dai principi costituzionali di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, ulteriormente rafforzati dal nuovo testo dell’art. 111 Cost.. A ciò si aggiunga che, nei campi in cui si chiede la tutela giurisdizionale di diritti derivanti dall’ordinamento comunitario – divenuti assai numerosi – il principio di effettività osta ad una disciplina processuale che renda eccessivamente difficile l’esercizio di tali diritti.

Si consideri, ancora, l’indicazione della giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 189 del 13 giugno 2000) per un’interpretazione, se necessario adeguatrice, del sistema processuale nel senso di restringere le ipotesi di inammissibilità dei rimedi giurisdizionali.

Il risultato di tali indicazioni, provenienti da norme o ordinamenti di rango superiore, è un vero e proprio effetto di irraggiamento nei confronti della disciplina legislativa che regola i modi di esercizio della tutela giurisdizionale. Tale effetto adeguatore del sistema normativo, allorché sia in gioco la tutela di diritti fondamentali, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte proprio in materia processuale (Sezioni Unite, sentenza del 2 dicembre 2004, n. 22601)”.

In conclusione, in un’ipotesi in cui costituisce dato acquisito agli atti di causa quello che al momento dell’erogazione del rimborso nessuna sopravvenienza attiva tassabile sarà destinata a realizzarsi in quanto il relativo costo è stata traslato su terzi e non è stato dedotto dal contribuente, la grave sanzione dell’inammissibilità dell’istanza di rimborso non può legittimamente essere comminata – anche in caso di mancata trasmissione dell’istanza di rimborso all’Agenzia delle Entrate – difettando la stessa ragione giustificatrice posta alla base della previsione dell’adempimento.

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