Il trattamento IVA della cessione di energia elettrica per il funzionamento delle parti comuni condominiali: il revirement dell’Agenzia delle Entrate e le problematiche connesse al rimborso della maggiore IVA indebitamente versata
Agenzia delle Entrate, risposta ad interpello n. 142 del 3 marzo 2021
1. – Con la risposta ad interpello n. 142 del 3 marzo 2021, la Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto l’applicazione dell’aliquota IVA del 10% prevista al n. 103) della tabella A, Parte III, allegata al DPR 633/72 alla cessione di energia elettrica nei confronti di un condominio che sia composto esclusivamente da unità immobiliari residenziali.
Il caso analizzato dall’Agenzia riguardava invero un condominio formalmente “misto”, in quanto composto non solo da unità residenziali, ma anche da tre unità ad uso commerciale. Tuttavia queste ultime unità, pur ubicate all’interno delle mura dell’edificio, erano completamente indipendenti negli accessi (lato strada), nei servizi (riscaldamento) e nelle utenze (energia elettrica) e godevano di un sistema di illuminazione e riscaldamento autonomo, escluso dai riparti delle spese condominiali. Peraltro, esse non erano collegate ad alcun servizio né parte comune del condominio (né alle scale, né ai box, né agli ascensori, ecc.).
Essendo le unità commerciali totalmente autonome e svincolate dal condominio, quest’ultimo poteva quindi definirsi in sostanza “esclusivamente residenziale”: da qui il dubbio se l’energia acquistata per il funzionamento delle parti comuni potesse beneficiare dell’aliquota IVA agevolata.
Sotto il profilo strettamente tributario, giova premettere che, ai sensi del menzionato n. 103 della Tabella A, Parte III allegata al d.P.R. n. 633/1973, l’aliquota agevolata spetta solo qualora la fornitura abbia ad oggetto “energia elettrica per uso domestico”. Con riferimento a tale presupposto, l’Agenzia delle Entrate ha in più occasioni precisato che esso si realizza solo se l’energia è ceduta a consumatori finali che la impiegano nella propria abitazione privata a carattere familiare o in analoghe strutture a carattere collettivo caratterizzate dal requisito di residenzialità e non la utilizzano nemmeno promiscuamente nell’esercizio di imprese o professioni (tale principio è stato frequentemente affermato dall’Agenzia nei propri documenti di prassi. Cfr., in particolare, C.M. n. 59/77, n. 82/99, ris. Agenzia delle Entrate n. 21/2008, n. 28/2010, n. 8/2017).
Questo orientamento è espressamente richiamato nella risposta in commento, rispetto al quale l’Agenzia si premura di sottolineare che
“L’espressione “uso domestico” è stata interpretata più restrittivamente con riguardo, però, alle utenze a utilizzazione promiscua, imponendo l’applicazione dell’aliquota ordinaria sull’intera fornitura nei casi in cui non sia possibile determinare il quantitativo effettivamente impiegato per usi domestici agevolati, per mancanza di distinti contatori (cfr. circolare n. 82/E del 7 aprile 1999), in ossequio al principio generale secondo cui la disciplina ordinaria può essere derogata da quella speciale solo nell’ipotesi in cui siano individuati i presupposti previsti da quest’ultima”.
Tuttavia, sotto il profilo strettamente civilistico, nella risposta qui in commento l’Agenzia precisa che il condominio non è “altro” dalle unità immobiliari che lo compongono. Menziona a tal proposito sia l’art. 1117 c.c., a norma del quale le parti comuni condominiali non possono considerarsi distinte e autonome dalle singole unità immobiliari, sia la disciplina relativa alla soggettività giuridica del condominio, che è un mero ente di gestione delle parti comuni per conto dei condòmini privo del potere di interferire nei loro autonomi diritti (cfr. risoluzione 10 agosto 2012, n. 84/E).
Sulla base di tali premesse, l’Agenzia conclude che il condominio interamente residenziale “eredita” a sua volta il carattere della residenzialità dalle abitazioni che lo compongono: da ciò fa discendere la corretta applicazione dell’aliquota IVA del 10% alla cessione di energia elettrica destinata al funzionamento delle sue parti comuni [1].
2. – L’Agenzia delle Entrate afferma che la risposta resa nella menzionata risoluzione n. 142/2021 sarebbe “in linea” con quella resa nella precedente risposta alla consulenza giuridica n. 3 pubblicata il 4 dicembre 2018, nella quale la medesima Agenzia è pervenuta a diverse conclusioni con riferimento ad un condominio “misto” (avente cioè anche unità immobiliari non residenziali). Nell’opinione della Direzione Centrale, le diverse conclusioni tratte nelle due risposte sarebbero giustificate solo dalla diversità della fattispecie concreta oggetto di esame, che nell’un caso (ris. n. 3/2018) concerneva un condominio misto, nell’altro (ris. n. 142/2021) un condominio esclusivamente residenziale.
Tuttavia, ad un’attenta lettura emerge che la risposta n. 3/2018 non differisce dalla risposta n. 142/2021 solo nel fatti: diverse sono anche le argomentazioni giuridiche che l’Agenzia ha speso nelle due sedi.
Nella risposta n. 3/2018 l’Agenzia ha infatti premesso che
“nel condominio la prestazione di fornitura di energia elettrica è fatturata distintamente ad ogni unità immobiliare (sia che abbia destinazione residenziale, sia che abbia destinazione diversa, come uffici, studi professionali, negozi), e che la fornitura di energia elettrica necessaria per il funzionamento delle parti comuni dei condomìni è fatturata anch’essa direttamente allo stesso condominio”.
Da questa premessa, ha tratto la conclusione per cui
“la fornitura di energia elettrica necessaria per il funzionamento delle parti comuni dei condomìni […] non soddisfa il requisito dell’uso domestico, in quanto è finalizzata ad essere impiegata esclusivamente in luoghi diversi dall’abitazione”.
Conseguentemente, in punto di diritto ha concluso che
“la circostanza che le parti comuni di un edificio non possano essere destinati all’abitazione, a carattere familiare o collettivo, non consente di soddisfare il requisito dell’uso domestico richiesto dalla disposizione agevolativa di cui al numero 103) della Tabella A, Parte III, allegata al DPR n. 633 del 1972”.
In buona sostanza, la argomentazioni giuridiche della precedente risposta lasciavano intendere che le parti comuni dei condomìni, in quanto “luoghi diversi dall’abitazione”, non fossero giammai meritevoli dell’aliquota IVA agevolata.
Ben diversa è invece la conclusione in diritto della risposta n. 142/2021, ove l’Agenzia ha chiarito che le parti comuni “ereditano” la qualifica di “abitazioni” dalle connesse unità immobiliari: se queste sono tutte residenziali, allora sono tali anche le parti comuni.
Pertanto, la risposta n. 142/2021 non sembra affatto l’applicazione dei medesimi principi giuridici già enunciati nella risposta n. 3/2018 ad una diversa fattispecie concreta. Sembra invece un vero e proprio revirement dell’Agenzia delle Entrate in punto di diritto, avente ad oggetto una diversa interpretazione del concetto stesso di uso domestico dell’energia in relazione ai condomìni.
3. – In quest’ottica, non è quindi escluso che tale nuova posizione dia luogo alla richiesta di rimborso della maggiore IVA versata da parte dei soggetti che, quantomeno in via prudenziale, abbiano applicato l’aliquota ordinaria anche alle cessioni di energia elettrica verso condomìni “esclusivamente residenziali”.
Con riferimento alle modalità per ottenere tale rimborso, l’Agenzia non precisa alcunché. Vale però sottolineare che, in precedenti analoghe occasioni, essa:
- ha formalmente (e indebitamente) sconsigliato il ricorso alla nota di variazione ex 26 del d.P.R. n. 633/1972, chiedendo agli operatori di aprire – se nei termini – una formale procedura di rimborso;
- ha condizionato l’erogazione dei rimborsi alla prova, richiesta agli istanti, di aver restituito alle controparti contrattuali la maggiore imposta oggetto di rivalsa. Ciò al fine di non ingenerare, in capo a detti soggetti passivi, situazioni di “indebito arricchimento”.
Per fare qualche esempio, si rinviene questo orientamento di prassi:
- nella risoluzione n. 29/E del 1° febbraio 2008, in tema di rimborso della maggiore IVA versata per le somministrazioni obbligatoriamente imposte in discoteche e sale da ballo (in forza dell’erronea applicazione dell’aliquota del 20% in luogo della minore aliquota – 10% – cui dette prestazioni andavano assoggettate);
- nella risoluzione n. 108/E del 15 ottobre 2010, in tema di rimborso della maggiore IVA erroneamente applicata alle prestazioni di servizi di somministrazione di gas metano nei confronti di condomìni serviti da impianti centralizzati;
- nella risoluzione n. 15/E del 4 marzo 2013, in tema di rimborso dell’IVA assolta sulle prestazioni aventi per oggetto interventi di recupero del patrimonio edilizio realizzati su fabbricati a prevalente destinazione abitativa privata. In particolare, in quest’ultima risoluzione l’Agenzia ha chiarito che
“l’eventuale richiesta di rimborso dell’IVA addebitata agli utenti in misura eccedente il 10 per cento, da presentarsi entro il termine biennale di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, decorrente dalla data del versamento dell’imposta applicata nella misura ordinaria, potrà essere soddisfatta solo a condizione che il prestatore di servizi dimostri l’effettiva restituzione del tributo agli utenti e nel limite della somma effettivamente restituita a questi ultimi.
In ragione della necessità di escludere che a seguito della presente risoluzione possano verificarsi indebiti arricchimenti, si precisa che, per ottenere il rimborso dell’imposta applicata in misura eccedente il 10 per cento, non possono essere utilizzati i meccanismi di variazione delle fatture disciplinati dall’articolo 26 del DPR 26 ottobre 1972, n. 633”.
L’orientamento su citato non deve ritenersi condivisibile sotto diversi profili.
Il primo: l’Agenzia non ha il potere di inibire ai contribuenti l’esercizio di un diritto conferito per legge ex art. 26 del d.P.R. n. 633/1972, sicché se sussistono tutti i presupposti previsti da tale ultima disposizione gli operatori sono senz’altro liberi di scegliere se rettificare l’errore con nota di variazione ovvero aprire un procedimento di rimborso avanzando apposita istanza all’Agenzia. Sembra essersi avveduta di ciò la stessa amministrazione finanziaria che, in alcune risoluzioni più recenti, non “demonizza” l’emissione di note di variazione, ma anzi le descrive come lo strumento propriamente demandato a correggere errori di tal fatta (cfr. risposta n. 115 del 18 dicembre 2018 e risposta n. 498 del 26 novembre 2019).
Il secondo: l’impostazione dell’Agenzia secondo cui il rimborso spetta solo se l’istante dimostra di aver restituito la maggiore IVA alla propria controparte è stata formalmente superata dall’entrata in vigore dell’art. 30-ter del d.P.R. n. 633/1972, a norma del quale:
“1. Il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
2. Nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”.
Il secondo comma della nuova norma, nella sua corretta interpretazione (per la quale si rinvia a L. Salvini, L’IVA non dovuta. Restituzione e detrazione, in Nuovi profili dell’IVA. Verso una disciplina definitiva a cura di Alberto Comelli. Atti dell’VIII convegno annuale – Parma 12 aprile 2018, Aracne Editrice, 2019) conferma infatti che la prova dell’avvenuta restituzione dell’IVA chiesta a rimborso deve essere fornita solo nel caso in cui l’imposta non dovuta sia “accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria” e il rimborso sia richiesto al superamento del termine biennale di cui al primo comma. In tutti gli altri casi, tale prova non è richiesta, come del resto riconosciuto da lungo tempo anche dalla Corte di Cassazione[2].
4. – Merita un ultimo cenno la questione relativa alla titolarità del diritto al rimborso e, in particolare, alla possibilità per il cessionario di chiedere direttamente all’erario la restituzione della maggiore IVA indebitamente subita in rivalsa, tema ampiamente dibattuto che qui può essere solo brevemente accennato.
In proposito la Corte di Cassazione ha sottolineato che, il linea di principio, il cessionario non ha diritto di ripetere direttamente dall’Erario la maggiore IVA subita in rivalsa, potendo invece trovare piena tutela nell’esercizio di un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti della propria controparte contrattuale. Tuttavia, la Corte ha altresì precisato che
“soltanto se il rimborso risulti impossibile o eccessivamente difficile, il principio di effettività può imporre che l’acquirente del bene in questione sia legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie (come nel caso di fallimento del venditore: CGUE 27 aprile 2017, causa C-564/15, cit.; conf., CGUE 31 maggio 2018, cause C660 e 661/16, KoliroB e Wirti, punto 66)” (Sentenza n. 27649 del 3 dicembre 2020).
Il principio, giova sottolinearlo, è stato pronunciato in fattispecie concernenti operazioni B2B nelle quali anche l’acquirente, in quanto soggetto passivo, ha certamente un “rapporto d’imposta” con l’erario. Esso non sembra tuttavia estendibile tout court alle fattispecie B2C nelle quali l’acquirente è un consumatore finale privo di un “legame giuridico” ai fini dell’IVA con l’amministrazione finanziaria: come già brevemente accennato in altro contributo su questo sito (al par. 1.1.) e rimarcato, anche di recente, dalla giurisprudenza di legittimità[3], sembra corretto ritenere che nelle operazioni B2C solo i cedenti soggetti passivi siano titolati ad azionare il rimborso dell’IVA non dovuta nei confronti dell’erario, potendo i consumatori trovare piena tutela solo nell’azione di ripetizione dell’indebito verso i cedenti per la maggiore IVA subita in rivalsa.
___________________________________
[1] Questa posizione si pone in continuità con quella espressa nella precedente risposta alla consulenza giuridica n. 956-5-2019 del 21 febbraio 2021, non pubblicata.
[2] Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 4020 del 14 marzo 2012, richiamata da sent. n. 17174 del 26 agosto 2015.
[3] Cfr. Cass. Civ., Sez. V., ord. n. 33886 del 19 dicembre 2019.