La tassabilità dei prodotti energetici destinati ad essere utilizzati come combustibile o carburante impiegati in uno stabilimento che produce prodotti energetici, quando nel processo produttivo si ottengono prodotti non energetici da cui è tratto un valore economico
Corte di Giustizia UE 3.12.2020, causa C-44/19
Per regola generale, la dir. 2003/96/CE del Consiglio, del 27 ottobre 2003, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, dispone che questi ultimi siano soggetti a livelli minimi di tassazione da parte degli stati membri.
A ciò fa eccezione l’art. 21 par. 3 della medesima direttiva, a mente della quale
«il consumo di prodotti energetici all’interno di uno stabilimento che produce prodotti energetici, non è considerato un fatto generatore d’imposta se il consumo riguarda prodotti energetici fabbricati all’interno dello stabilimento».
Un’eccezione all’eccezione ora detta (che, quindi, ricostituisce la regola della tassazione) è poi recata dall’ultimo capoverso del medesimo art. 21, par. 3 della citata direttiva, ove si legge che
«qualora il consumo avvenga per fini non connessi con la produzione di prodotti energetici e, in particolare, per la propulsione di veicoli, questo è considerato un fatto generatore d’imposta, che comporta l’imposizione».
Orbene, come noto, la raffinazione di un prodotto energetico quale è il petrolio greggio al fine di produrre altri prodotti energetici destinati alla combustione – come, ad esempio, la benzina o altri olii- comportano la produzione (anche) di sottoprodotti chimici non energetici (lo zolfo, l’anidride carbonica, ecc.). In base alle norme poc’anzi citate, la produzione di un combustibile costituisce un “fatto generatore d’imposta”, salvo il caso in cui esso sia utilizzato con riguardo a prodotti energetici fabbricati all’interno dello stabilimento (vale a dire, è utilizzato nel processo di produzione del prodotto energetico finale). Tuttavia, il prodotto energetico rimane tassato se – pur all’interno dello stabilimento – viene consumato per un fine non direttamente connesso alla produzione del prodotto energetico finale (es.: è combusto per riscaldare lo stabilimento, oppure per la propulsione di veicoli che operano in esso).
Date tali premesse di carattere generale, è di particolare interesse la recente pronuncia della CGUE, resa nella causa C-44/19, recante l’interpretazione pregiudiziale del predetto art. 21, comma 3, e qui in commento..
Una società raffinatrice spagnola, infatti, è stata accertata dalla locale Amministrazione finanziaria ai fini delle accise per non aver sottoposto al tributo, in violazione della normativa interna che ha attuato la citata direttiva n. 2003/96, gli oli autoprodotti ed autoconsumati, nel cui processo produttivo ha ottenuto – come sotto-prodotti necessari della raffinazione – anche zolfo ed anidride carbonica, poi messi in commercio. Nell’ambito del contezioso scaturito dall’accertamento, la Corte di Giustizia è stata chiamata a stabilire più in dettaglio se
«l’articolo 21, paragrafo 3, prima frase, della direttiva 2003/96 debba essere interpretato nel senso che, qualora uno stabilimento che produce prodotti energetici destinati ad essere utilizzati come combustibile o carburante consumi prodotti energetici che ha esso stesso prodotto e, con tale processo, ottenga anche, inevitabilmente, prodotti non energetici, la parte di consumo da cui si ottengono tali prodotti non energetici rientra nell’eccezione al fatto generatore dell’imposta sui prodotti energetici prevista da tale disposizione.»
Il contribuente si è difeso affermando che lo scopo della disciplina unionale
«è di tassare i soli prodotti energetici immessi in consumo, ad esclusione di quelli destinati all’autoconsumo, vale a dire di quelli utilizzati per la produzione di altri prodotti energetici, anche se, durante tale processo di fabbricazione, si ottengono inevitabilmente prodotti residui non energetici. Pertanto, la prassi dell’amministrazione fiscale spagnola di tassare la parte dell’autoconsumo che ha generato tali prodotti residui sarebbe contraria all’obiettivo della direttiva 2003/96.».
Tale conclusione si dovrebbe trarre anche dal confronto tra l’art. 21, comma 3, cit. e la precedente disciplina in materia, recata dall’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 1992/81, in base al quale
«Il consumo di oli minerali all’interno di uno stabilimento di produzione di oli minerali non è considerato come un fatto generatore dell’accisa fintantoché esso sia effettuato per i fini della produzione. Tuttavia, detto consumo è considerato come un fatto generatore dell’accisa se esso è effettuato per fini non connessi con la produzione e, in particolare, per la propulsione di veicoli a motore».
La soppressione ad opera della nuova disciplina dell’inciso «sia effettuato per i fini della produzione» recato dall’articolo 4, par. 3, dovrebbe infatti essere considerato come una modifica implicante che i consumi di prodotti energetici all’interno dello stabilimento in cui tali prodotti sono stati fabbricati, effettuati per la produzione di prodotti energetici finali, durante i quali si ottengono inevitabilmente prodotti non energetici, sono anch’essi esenti da accisa.
La Corte di Giustizia ha tuttavia rigettato le tesi difensive del contribuente, e – ricordando la necessaria interpretazione restrittiva dell’eccezione alla regola della tassazione minima dei prodotti energetici, volta anche ad evitare effetti distorsivi nella concorrenza tra operatori economici – ha stabilito che
«L’articolo 21, paragrafo 3, prima frase, della direttiva 2003/96/CE del Consiglio, del 27 ottobre 2003, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, deve essere interpretato nel senso che, qualora uno stabilimento che produce prodotti energetici destinati ad essere utilizzati come combustibile o carburante consumi prodotti energetici che ha esso stesso prodotto e, con tale processo, ottenga altresì, inevitabilmente, prodotti non energetici da cui è tratto un valore economico, la parte del consumo dalla quale si ottengono tali prodotti non energetici non rientra nell’eccezione al fatto generatore d’imposta sui prodotti energetici, prevista da tale disposizione.»
Le conclusione di tale sentenza, e le argomentazioni alla loro base, destano però alcune perplessità.
I giudici infatti richiamano la sentenza del 7 novembre 2019, Petrotel‑Lukoil, C-68/18 (specie i punti 26, 27 e 33), che però riguardava il differente caso relativo alla tassabilità degli oli combusti per alimentare i propri impianti che producono ulteriori oli combustibili; nonché degli oli combusti per alimentare la propria centrale termoelettrica, mediante la produzione di vapore che a sua volta produce energia elettrica, anch’essa destinata al processo produttivo di altri prodotti energetici. Nella citata sentenza Lukoil, la Corte stabiliva che l’art. 21, par. 3
«deve essere interpretato nel senso che esso osta a disposizioni o a prassi nazionali che prevedono la tassazione di prodotti energetici consumati all’interno della centrale termoelettrica dello stabilimento in cui essi sono stati fabbricati, purché tale consumo sia volto a produrre prodotti energetici generando l’energia termica necessaria al processo tecnologico di fabbricazione di detti prodotti»,
fermo restando che ai prodotti energetici destinati alla produzione di energia elettrica si applica non già l’art. 21, par. 3, ma – per specialità – l’arl’14, paragrafo 1, lettera a) della medesima direttiva. Ivi si legge inoltre il principio secondo cui
“non può dar luogo all’applicazione dell’eccezione al fatto generatore d’imposta per quelli tra essi che vengono utilizzati al fine di generare energia che non è essa stessa destinata alla produzione di prodotti energetici. Tale è in particolare il caso, come ha riconosciuto in udienza la ricorrente nel procedimento principale, dell’utilizzo del calore prodotto nella centrale termoelettrica del suo stabilimento ai fini del riscaldamento dei locali di quest’ultimo”.
Ciò significa che se (in ipotesi) cento tonnellate di olio sono destinate alla produzione di energia elettrica mediante combustione in una centrale termoelettrica che produce energia elettrica utilizzata per i processi produttivi di prodotti energetici, una parte delle cento tonnellate di combustibile sarà esente ex art. 14, paragrafo 1, lettera), ma una parte (difficile da quantificare, in assenza di indicazioni normative o di prassi) sarà tassabile perché ha prodotto una utilità (il riscaldamento dell’edificio) non connesso al processo produttivo dei prodotti energetici finali. Analogamente, sarà escluso da accisa il prodotto energetico combusto al fine di produrre altri prodotti energetici.
Orbene, i principi della sentenza Lukoil, fatti propri dalla sentenza qui in commento, trovano una (ancor) più difficile applicazione ai casi di raffinazione di petrolio greggio. Se cento tonnellate di greggio sono raffinate, e da esse si ricavano novanta tonnellate di gasolio e dieci di zolfo (che non è un prodotto energetico), come si calcola l’accisa dovuta, per il caso in cui le 90 tonnellate di gasolio siano interamente impiegate per produrre altri prodotti energetici? Non è chiaro, anche in considerazione del fatto che la Corte, allo scopo di escludere che la propria interpretazione del diritto unionale comporti una doppia imposizione, ha affermato che quando
«il consumo di prodotti energetici all’interno dello stabilimento in cui sono stati fabbricati è effettuato per la produzione di prodotti energetici destinati ad essere utilizzati come combustibile o carburante, tale eccezione (ossia, l’esclusione da tassazione ex art. 21, par. 3, n.d.a.) è pienamente applicabile alla parte di prodotti energetici consumati a tal fine».
Ne deriva che le 90 ipotetiche tonnellate di gasolio, prodotte e autoconsumate nello stabilimento, dovrebbero essere escluse da accise. Se così è, non si capisce cosa e come dovrebbe essere tassato in relazione alla produzione di zolfo, che deriva per intero dall’utilizzo delle stesse cento tonnellate di cento di petrolio greggio che hanno originato il gasolio escluso da tassazione.
Data la diretta rilevanza delle pronunce della Corte di Giustizia negli ordinamenti degli Stati membri, si rimane in attesa di un intervento chiarificatore dell’Agenzia delle Dogane, che illustri gli effetti della pronuncia rispetto all’art. 22 del Testo Unico delle Accise, che ha attuato per l’Italia il menzionato art. 21, par. 3 della direttiva 2003/96/CE.