La realizzazione di un impianto fotovoltaico su un terreno detenuto in locazione non può essere causa di riqualificazione del contratto ai sensi dell’art. 20 del d.p.r. n. 131/1986
Ordinanza della Corte di cassazione del 24 agosto 2021, n. 23399
Con l’ordinanza del 24 agosto 2021, n. 23399 la Corte di cassazione ha esaminato, con riferimento agli effetti in tema di imposta di registro, una fattispecie che negli ultimi anni ha avuto una larga diffusione: nell’esercizio dell’attività di realizzazione di impianti fotovoltaici, infatti, si è originata la diffusissima prassi contrattuale di consentire l’installazione di detti impianti ai conduttori dei fondi su cui gli impianti vengono costruiti. In altri termini, il proprietario del fondo e l’impresa sviluppatrice dell’impianto stipulano spesso un contratto di locazione di una data area inserendo, all’interno di tale contratto, una clausola in base alla quale il conduttore viene autorizzato a installare l’impianto su quell’area e poi a gestirlo per un certo numero di anni; in alcuni casi, come quello in oggetto della pronuncia de qua, i contraenti specificano anche le sorti della proprietà dell’impianto che potrebbe restare in capo al proprietario oppure essere attribuita al conduttore, il quale potrà decidere o meno di smontarlo al termine della locazione, ripristinando il fondo nello status quo ante la sua installazione.
Come sostenuto in dottrina [1], un siffatto impianto contrattuale poggia in genere su una ben precisa ragione economica, rappresentata dal fatto che il contratto di locazione costituisce il titolo più conveniente da ottenere per poter richiedere le autorizzazioni necessarie per la costruzione dell’impianto. La costituzione del diritto di superficie o l’acquisto stesso del fondo sono invero evidentemente molto più onerosi, anche in termini di eventuale risoluzione del vincolo contrattuale, soprattutto se si tiene conto della possibilità che l’autorizzazione non venga concessa.
Tanto premesso, nel caso esaminato dalla S.C. si discuteva proprio di un contratto di locazione relativo ad un terreno destinato alla costruzione ed esercizio di un impianto fotovoltaico; detto contratto, poi, era caratterizzato da alcune pattuizioni diverse da quelle tipiche del contratto di locazione e concernenti, tra le altre cose, la previsione dell’obbligo di preventiva autorizzazione del progetto, delle spese straordinarie a carico del conduttore, ed infine l’acquisto gratuito dell’impianto fotovoltaico, da parte del proprietario, alla scadenza del contratto. In virtù di queste clausole peculiari, l’A.F., procedendo ai sensi dell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 (TUR), aveva ritenuto di riqualificare detto rapporto come contratto di costituzione di diritto di superficie, con conseguente recupero a tassazione della relativa imposta di registro in misura proporzionale.
Con la decisione in commento, la Cassazione, confermando le due decisioni di merito, ha sancito l’illegittimità della riqualificazione operata dall’A.F., riconoscendo l’autonomia negoziale delle parti che, in caso di utilizzo di un terreno destinato all’installazione di impianti fotovoltaici, possono regolare i rispettivi interessi utilizzando diversi schemi contrattuali non necessariamente con effetti reali, ma anche a carattere obbligatorio, come appunto il contratto di locazione ex articolo 1571 c.c..
Due sono le linee direttrici lungo cui si sviluppa la decisione della Corte di legittimità: da un lato, la tutela dell’autonomia privata riconosciuta dall’art. 1322 c.c. e, dall’altro, la natura dell’art. 20 TUR, come meglio definita dalle recenti pronunce della Corte costituzionale (sentenza n. 158/2020 e sentenza n. 39/2021) [2], che non lascia alcuno spazio a contestazioni di natura antielusiva.
Sotto il primo profilo, il Collegio giudicante ha condiviso il decisum della CTR nella parte in cui aveva ritenuto insufficienti gli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate per un’interpretazione dell’atto diversa da quella rappresentata dalle parti contraenti ed ha chiarito che, in sede di legittimità, un sindacato della volontà contrattuale è ammissibile solo ove si appunti sulla violazione dei criteri di interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., con la conseguenza che “deve ritenersi inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto (Cass. n. 2465/2015; n. 7280/2019)”.
Sotto il secondo profilo, risultano di particolare interesse i passaggi in cui i Giudici ricordano che l’interpretazione degli atti prevista dall’art. 20 TUR non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto presentato alla registrazione e neppure può confondere gli effetti giuridici, rilevanti ai fini dell’imposizione di registro, con quelli economici dell’operazione negoziale, essendo la finalità antielusiva, pure evocata dall’Amministrazione finanziaria, profilo estraneo alla disposizione in esame. Innanzitutto, a detta della Cassazione, un’eventuale azione accertatrice, ove intenda perseguire siffatte finalità antielusive, deve essere attuata all’interno dello specifico procedimento di garanzia previsto e disciplinato dall’art. 10-bis, l. n. 212/2000. Inoltre, la Cassazione ha anche correttamente ribadito che un comportamento elusivo non può identificarsi sic et simpliciter con il risparmio fiscale osservando peraltro come, nella fattispecie in esame, i giudici di merito avessero anche debitamente evidenziato che la concessione di un diritto di superficie avrebbe comportato un vincolo eccessivo sul terreno, riscontrando così la sussistenza di una specifica ragione di carattere imprenditoriale (di per sé idonea ad escludere ogni sindacato di elusività dell’operazione) per cui le parti avevano preferito sottoscrivere un contratto ad effetti obbligatori, in luogo di un più “impegnativo” contratto con effetti reali.
Al fine dunque di ricostruire l’effettiva natura del contratto, è decisiva l’interpretazione di tutte le sue clausole complessivamente considerate (e – si può dire – solo di quelle); detta attività è attribuita al Giudice del merito – che è giudice del fatto – ed è censurabile innanzi al Giudice di legittimità solo ove essa sia stata effettuata in contrasto con i criteri ermeneutici previsti dal codice civile. Partendo da tale condivisile assunto, come si è visto, la Suprema Corte ha ritenuto che nel caso di specie la CTR avesse adeguatamente argomentato sulla reale volontà delle parti contraenti, ricostruendola in maniera del tutto compatibile con la disciplina di un contratto ad effetti obbligatori come può essere un contratto di locazione. Per contro, l’Agenzia delle Entrate non era stata in grado di dimostrare che le clausole contenute nel contratto stesso, per quanto peculiari rispetto alla fattispecie tipica, erano tali da trasformarne radicalmente la natura o da rendere quello stesso contratto compatibile con la fattispecie molto più rigida del trasferimento di un diritto reale.
Dopo anni in cui le interpretazioni dell’art. 20 TUR da parte della Suprema Corte avevano sistematicamente condotto a stravolgere la volontà negoziale delle parti, la decisione in commento, facendo tesoro degli insegnamenti della Corte costituzionale e delle recenti modifiche apportate dal legislatore (mediante le leggi di bilancio per il 2018 e per il 2019 [3]) alla lettera dell’art. 20, da un lato, esclude definitivamente ogni commistione tra il predetto art. 20 e la disciplina dell’abuso del diritto e, dall’altro, detta specifici limiti ai poteri attribuiti all’Amministrazione finanziaria. In proposito, è apprezzabile il chiarimento secondo cui sebbene quest’ultima non sia tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione giuridica indicata dalle parti, tale attività riqualificatoria non può travalicare lo schema negoziale nel quale l’atto risulta inquadrabile, facendo leva su una presunta causa reale del contratto stesso derivante da elementi interpretativi esterni all’atto come, ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti o gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici.
In conclusione, per effetto della lettura operata dalla Corte di cassazione, sembra potersi definitivamente attribuire all’art. 20 cit. un corretto ambito operativo ossia quello costituito dall’assetto cartolare dell’atto sottoposto a registrazione (e non da un’ipotetica causa reale ricostruita ex-post) desumibile dal regolamento di interessi posto in essere dai contraenti.
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[1] A. Busani, Impianto fotovoltaico costruito su fondo condotto in locazione e principio di accessione, in Riv. Notariato, n. 3/2012, pag. 315.
[2] Sebbene la Corte affermi che le suddette pronunce “non incidono direttamente sulla fattispecie in esame, per la quale non è in contestazione il collegamento con altri atti o l’utilizzo di elementi extra testuali per l’opera di qualificazione negoziale (oggetto dei giudizi di costituzionalità), ma essenzialmente l’indagine sulla corretta interpretazione dell’atto negoziale tassato”, non v’è dubbio che nello sviluppo di tutto il suo apparato argomentativo essa mantiene ben presenti le indicazioni formulate dalla Corte costituzionale, al fine di poter individuare “l’esatta portata e i limiti dei poteri dell’Amministrazione finanziaria, onde applicare la tariffa più rispondente al contenuto del contratto ed alla volontà delle parti”.
[3] Segnatamente, con l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 e con l’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145.