27/12/2021

Mentre si resta in attesa di una pronuncia della Corte Costituzionale, la controversa questione del rimborso dell’addizionale provinciale alle accise sull’energia elettrica manca ancora di una soluzione che consenta di risolvere le criticità dell’attuale sistema, al fine di tutelare in maniera proporzionale e bilanciata gli interessi di tutte le parti coinvolte.

 

1. – La storia recente dell’addizionale all’accisa sull’energia elettrica è stata segnata da due eventi che ne hanno sancito la definitiva “eliminazione” dal sistema tributario italiano: l’abrogazione da parte del legislatore a partire dal 2012 e la disapplicazione da parte della Suprema Corte in relazione alle annualità precedenti.

Venendo più in dettaglio a tale ultima vicenda, la Corte di Cassazione con diverse pronunce (cfr. sent. n. 27099 del 23 ottobre 2019 e successive conformi) ha rilevato che l’addizionale provinciale alle accise sull’energia elettrica prevista dall’articolo 6 del d.l. n. 511/1988 è incompatibile con l’art. 1 della direttiva n. 2008/118/CE, non potendosi ravvisare una “finalità specifica” di tale tributo.

Il citato art.  1, p. 2, della direttiva n. 2008/118/CE, prevede infatti che:

«Gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta; sono escluse da tali norme le disposizioni relative alle esenzioni».

Esso consente quindi agli Stati membri di “applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette”, a condizione che ricorrano due condizioni, applicabili cumulativamente, e ciò che tali “altre imposte”:

1)  rispettino  le  regole   di   imposizione   dell’unione applicabili ai fini delle accise o dell’IVA per la determinazione della base imponibile, il calcolo, l’esigibilità e il  controllo  dell’imposta;

2) abbiano una finalità specifica, cioè una finalità che non sia puramente di bilancio; occorre in particolare che il  gettito  di tali imposte sia obbligatoriamente  utilizzato

«al  fine  di  ridurre  i  costi   ambientali specificamente connessi  al  consumo  di  energia  elettrica  su  cui  grava l’imposta in parola nonché di promuovere la coesione territoriale e sociale, di modo che sussiste un  nesso  diretto  tra  l’uso  del  gettito  derivante dall’imposta e la finalità dell’imposizione in questione» (CGUE, sent. n. 82/12 del 27 febbraio 2014, punto 30).

Sennonché, il legislatore italiano ha introdotto un’addizionale all’accisa sull’energia elettrica con l’art. 6 del d.l. 28 novembre 1988, n. 511, così formulato:

«E’ istituita una addizionale all’accisa sull’energia  elettrica  di cui agli articoli 52,  e  seguenti,  del  testo  unico  delle  disposizioni legislative concernenti  le  imposte  sulla  produzione  e  sui  consumi  e relative sanzioni penali e amministrative approvato con decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, di seguito denominato: testo unico  delle  accise, nelle misure di: […]».

Il sospetto d’incompatibilità comunitaria prospettato innanzi alla Corte di Cassazione derivava dal fatto che addizionale risultava priva della seconda condizione richiesta dalla norma comunitaria, e cioè di una finalità specifica. La Corte di Cassazione ha ravvisato tale mancanza ed ha infatti precisato a chiare lettere che la menzionata addizionale deve ritenersi incompatibile con il diritto unionale in quanto

«nè  la disposizione di cui all’art. 6, nè  il  decreto  11  giugno  2007  del  capo dipartimento per le politiche fiscali del Ministero  dell’economia  e  delle finanze previsto dal comma 2 del medesimo articolo chiariscono in alcun modo le specifiche finalità che le addizionali dovrebbero  andare  a  soddisfare, non essendo in armonia con il  diritto  unionale  la  destinazione  di  tali addizionali a semplici finalità di bilancio.

In  particolare,  tenuto  conto  delle  sentenze  della  Corte  di giustizia sopra richiamate, non può essere ritenuta  finalità  specifica  la destinazione (evincibile dalla premessa del D.L.  n.  511  del  1988)  delle imposte addizionali ad “assicurare le necessarie  risorse  agli  enti  della finanza regionale e locale, al fine di garantire l’assolvimento dei  compiti istituzionali”, non essendo tale finalità in grado di essere distinta  dalla generica finalità di bilancio» (sentenza del 23 ottobre 2019, n. 27101).

Da quanto sopra, è conseguita la disapplicazione dell’art. 6 per incompatibilità della norma con il diritto unionale.

Come anticipato, la citata giurisprudenza della Corte di Cassazione si è formata successivamente ad un intervento sul tema dello stesso legislatore interno, sollecitato dalla Commissione Europea. Nel 2011 la Commissione Europea ha infatti avviato una procedura di  infrazione  nei confronti  dell’Italia  ritenendo  che l’addizionale  provinciale  e   comunale sull’accisa sull’energia elettrica fosse in contrasto con la Direttiva 2008/118/CE. Pertanto il Governo, al fine di evitare il protrarsi di tale procedura, ha abrogato l’addizionale a decorrere dal 2012 con i d.l. n. 23/2011 e n. 68/2011, nelle Regioni a statuto ordinario, e con il d.l. n. 16/2012 anche nelle Regioni a statuto speciale. La Commissione europea, preso atto dell’intervenuta abrogazione, ha disposto  la chiusura della procedura di infrazione senza ulteriori azioni.

Nei menzionati giudizi di legittimità, la Corte di Cassazione ha disapplicato la norma istitutiva dell’addizionale in relazione ad annualità precedenti all’intervenuta abrogazione di legge.

 

2. – Tanto premesso sulla abrogazione/disapplicazione della norma istitutiva dell’addizionale provinciale, vale precisare che rimane irrisolta la problematica relativa all’insorgenza del diritto ad  ottenere  la  restituzione   delle addizionali versate nei periodi precedenti alla sua abrogazione.

Dalle pronunce della Corte di Cassazione, si è infatti generato un intenso contenzioso, fondato sull’azione civilistica di ripetizione dell’indebito, tra i consumatori finali che pretendono il rimborso del tributo e i fornitori di energia elettrica che hanno esercitato la rivalsa. Il contenzioso, ad oggi, ammonta a circa 115 milioni di euro, anche se la stima delle addizionali applicate negli anni 2010 e 2011 arriva a oltre 3 miliardi di euro.

Sul piano normativo, il rimborso dell’addizionale è regolato dall’art. 14 del TUA, a norma del quale

«1.  L’accisa è rimborsata quando risulta  indebitamente   pagata;   […] il  rimborso  deve   essere richiesto, a pena di decadenza, entro due  anni  dalla  data  del  pagamento ovvero dalla data in cui il relativo diritto può essere esercitato».

Aggiunge inoltre l’art. 29, L. n. 428/1990 (già commentato, sotto altro profilo, in un precedente contributo su questo sito), con specifico riferimento ai rimborsi derivanti da disposizioni nazionali incompatibili con  norme  comunitarie, che

«I diritti doganali all’importazione, le imposte di fabbricazione,  le  imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi  in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con  norme  comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non  sia  stato  trasferito  su altri  soggetti,  circostanza  che  non  può  essere  assunta  dagli  uffici tributari a mezzo di presunzioni».

Tali norme vanno lette in combinato disposto con gli artt. 16, 53 e 56 del TUA, a norma dei quali:

  • gli obbligati al pagamento dell’accisa sull’energia elettrica sono, tra gli altri, “i soggetti che  procedono  alla  fatturazione  dell’energia elettrica ai consumatori finali, di seguito indicati come  venditori”  (art. 16);
  • i crediti vantati dai soggetti  passivi dell’accisa verso i cessionari dei prodotti per i quali  i  soggetti  stessi hanno assolto tale tributo possono essere addebitati a  titolo  di  rivalsa” (art. 53);
  • le società fornitrici “hanno diritto di rivalsa sui consumatori finali” (art. 56).

Secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione, le trascritte norme disegnano un sistema di soggettività passiva nelle accise e, conseguentemente, di diritto al rimborso, che può essere così ricostruito.

Sotto il profilo sostanziale, il titolare della capacità contributiva e, quindi, il soggetto passivo dell’accisa è il fornitore. Costui, infatti, non ha un obbligo di rivalersi sul proprio cliente dell’onere dell’accisa assolta, ma solo un diritto di rivalsa, da ricondursi ad un “fenomeno meramente economico” inidoneo a traslare sul cliente la soggettività passiva del tributo[1].

Conseguentemente, in linea di principio il diritto al rimborso nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta  unicamente  al  fornitore soggetto passivo (il tema è oggetto di commento altro contributo su questo sito),  il quale  può esercitarlo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria secondo le seguenti regole:

  1. entro due  anni dalla data del pagamento;
  2. nel caso in cui abbia addebitato l’imposta al consumatore finale (ed abbia quindi esercitato il “diritto di rivalsa”), entro novanta giorni dal passaggio  in  giudicato  della  sentenza che attesta che il  consumatore  finale ha intentato vittoriosamente nei  suoi  confronti  azione  di  ripetizione  di indebito innanzi al giudice civile.

D’altra parte, il  consumatore  finale che abbia subìto la rivalsa di un’accisa non dovuta può essere reintegrato del maggior onere corrisposto mediante due azioni[2]:

1) in tutti i casi, può esercitare l’azione civilistica di ripetizione d’indebito  in sede civile  nei  confronti  del  fornitore (che, a sua volta, ripeterà l’imposta presso l’amministrazione finanziaria);

2) solo in casi eccezionali, può chiedere il  rimborso del tributo direttamente nei   confronti dell’Amministrazione finanziaria, allorquando dimostri che l’azione esperibile  nei  confronti  del fornitore si riveli oltremodo gravosa (come accade, tipicamente, nell’ipotesi di fallimento del fornitore).

 

3. – Il sistema così ricostruito si presta a non poche censure di irragionevolezza, come rilevato dal Collegio arbitrale di Vicenza che, con l’ord. n. 102 del 26 marzo 2021, che ha rimesso la questione in Corte Costituzionale.

La principale questione rimessa al Giudice delle Leggi attiene alla condizione secondo cui il fornitore che abbia esercitato la rivalsa può azionare il proprio diritto al rimborso solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che lo abbia condannato alla restituzione dell’imposta al proprio cliente. Nel caso esaminato dal Collegio arbitrale citato, si trattava infatti di un Consorzio con numerosissimi clienti, ai quali esso non poteva restituire l’onere del tributo spontaneamente, correndo in tal caso il rischio di non ottenere quella sentenza passata in giudicato che, secondo l’art. 14 cit., è titolo per azionare a sua volta il rimborso presso l’amministrazione finanziaria. Per ottenere il rimborso dell’addizionale, il Consorzio si vedeva quindi costretto subire i numerosi processi civili intentati dai clienti, soccombere certamente in giudizio (e sopportare anche le spese legali dovute alla soccombenza) e, infine, ottenere quella sentenza passata in giudicato che è condizione per ripetere, a sua volta, l’accisa presso l’amministrazione finanziaria.

Di qui la sospetta violazione degli artt. 41 e 3 Cost., atteso che:

  • l’onere di «anticipare» le somme percepite indebitamente in virtù di una sentenza provvisoriamente esecutiva, con la possibilità di recuperare le somme solo dopo anni e cioè al passaggio in giudicato di detta sentenza, comporta uno sbilancio finanziario irragionevole ed inaccettabile, che pregiudica l’attività di impresa propria del venditore;
  • l’obbligo di sostenere una difesa giudiziale, per una moltitudine diffusa di procedimenti, con costi ingenti a proprio esclusivo carico senza alcuna possibilità di rimborso, appare del tutto irragionevole ed arbitrario, specie quando il diritto del cliente al rimborso appare chiaro e delineato alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione;
  • proprio la presenza di un obbligo restitutorio generalizzato di una accisa o addizionale per indebito comunitario comporta che l’attività del Consorzio non sia più finalizzata a perseguire lo scopo per cui è stato costituito, ma venga monopolizzata, per un tempo indefinito al momento, dalla necessità di fronteggiare il debito stesso, sorto – come detto – a causa dell’emanazione di normativa in contrasto con il diritto comunitario.

Tali criticità si riverberano anche sotto il profilo della violazione dell’art. 117 Cost. e, in via mediata, degli articoli 16 e 52 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione europea, sostanziandosi in una violazione della libertà di impresa e del principio di proporzionalità per mancanza di bilanciamento, con il sacrificio totale del diritto del contribuente a vantaggio di una mera utilità a favore dell’Erario, che mantiene per un tempo irragionevole la disponibilità di importi incassati in forza di tributo illegittimo.

Ne risulta altresì violato il principio del giusto processo (art. 111 Cost. e 6 della CEDU), atteso che la norma costringe il fornitore ad intentare plurimi processi del tutto superflui, con soccombenza certa a suo carico: e un processo “superfluo” non può giammai essere “giusto”.

Ancora sotto il profilo dell’irragionevolezza, v’è da chiedersi se l’indebito arricchimento del fornitore, che tali norme mirano ad evitare, basti a giustificare un così complesso ed oneroso procedimento di rimborso a carico del fornitore stesso, tanto più ove si consideri che la sentenza definitiva del giudice civile non è vincolante per l’Agenzia delle Entrate, che deve comunque svolgere una propria istruttoria.

 

4. – Tutti i descritti profili di irragionevolezza delle norme sul rimborso dell’accisa emergono proprio nei casi di indebito derivante dalla “disapplicazione generalizzata” dell’accisa, come accade nelle fattispecie di contrasto con il diritto comunitario (analoghi, sotto il profilo degli effetti, a quelle di tributo dichiarato incostituzionale): casi che, come subito si dirà, sono significativamente diversi da quelli che riguardano l’indebito “singolo e specifico” per erronea applicazione della legge nel caso concreto.

Infatti, da un lato l’indebito “singolo e specifico” per erronea applicazione di legge nel caso concreto:

  • colpisce in modo limitato pochi comportamenti, posti in essere in carenza o violazione dei presupposti richiesti dalla norma;
  • è frutto di un errore “colpevole” imputabile al venditore o al cliente;
  • è conosciuto in concreto dalle sole parti del rapporto contrattuale;
  • genera un onere finanziario limitato in capo al venditore.

Dall’altro lato, l’indebito “generalizzato” per violazione di normativa comunitaria:

  • colpisce la generalità dei soggetti potenzialmente interessati all’accisa;
  • è conseguenza di un comportamento illegittimo (o quantomeno “fuorviante”) del legislatore nazionale, cui competerebbe l’obbligo di porvi rimedio senza nessun concorso delle parti contrattuali;
  • può essere valutato direttamente dall’Erario, effettivo destinatario delle somme, sulla base della prova del pagamento indebito;
  • genera un onere molto elevato, spropositato ed insostenibile da parte del soggetto passivo dell’accisa, proprio in ragione del fatto che esso si riverbera su tutti i rapporti d’imposta intrattenuti dal fornitore con i propri clienti.

 

5. – Nell’attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla questione, v’è forse una via per disciplinare in maniera più proporzionale e bilanciata il rimborso dell’accisa derivante da indebito comunitario. Tale via, suggerita dallo stesso Collegio arbitrale di Vicenza nell’ordinanza citata, consiste nell’assimilare l’ipotesi di indebito comunitario all’ipotesi di legittimazione diretta del cessionario nei confronti dell’Erario prevista nel caso di impossibilità o eccessiva difficoltà di conseguire dal fornitore  il  rimborso  dell’imposta indebitamente pagata.

Si tratta di una via che consentirebbe di ottenere la restituzione dell’accisa indebitamente versata sollevando tuttavia il fornitore dagli sproporzionati oneri procedurali che attualmente condizionano l’accesso al rimborso: via che pare utilmente percorribile proprio in fattispecie nelle quali il rimborso è ragionevolmente certo, essendo “venuta meno” la stessa legge istitutiva del tributo.

Tuttavia, questa soluzione non pare perseguibile mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14 del TUA: la parola passa quindi alla Corte Costituzionale, l’unica titolata a risolvere la questione una volta per tutte.

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[1] In Cass. 19980/2019, si legge che «In buona sostanza, l’imposta è dovuta dai soggetti  che  forniscono direttamente il prodotto ai  consumatori,  di  guisa  che  soggetto  passivo dell’imposta è il fornitore del prodotto;  quanto  al  consumatore,  l’onere corrispondente all’imposta è su di lui traslato in virtù e nell’ambito di un fenomeno meramente economico. Ne deriva che il rapporto tributario  inerente al  pagamento  dell’imposta  si  svolge   soltanto   tra   l’Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente i prodotti, essendo ad esso estraneo l’utente consumatore. […] I due  rapporti,  quello  fra fornitore  ed  amministrazione  finanziaria  e  quello   fra   fornitore   e consumatore, si pongono quindi su due piani diversi:  il  primo  ha  rilievo tributario, il secondo civilistico».

[2] In Cass. Civ. sez. trib., sent. 23 ottobre 2019, n. 27099, si legge che il consumatore finale “anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere direttamente all’Amministrazione finanziaria il rimborso delle accise indebitamente corrisposte” ma può “esercitare l’azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore, salvo chiedere eccezionalmente il rimborso anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria allorquando alleghi che l’azione esperibile nei confronti del fornitore si riveli oltremodo gravosa (come accade, ad esempio, nell’ipotesi di fallimento del fornitore”.

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