30/05/2022

Come ben noto, l’art. 57, comma 3, secondo alinea del d.lgs. n. 504/1995 (TU Accise) nel disciplinare la prescrizione dell’azione dell’Amministrazione finanziaria per il recupero dell’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica – dopo aver disposto che ordinariamente “[i]l termine di prescrizione per il recupero dell’imposta è di cinque anni dalla data in cui è avvenuto il consumo” –  stabilisce ulteriormente che “In caso di comportamenti omissivi la prescrizione opera dal momento della scoperta del fatto illecito”.

Della legittimità costituzionale di tale norma ha dubitato la Corte di Cassazione (ordinanze nn. 5483 e 5484 del 2020).

Secondo il giudice rimettente, tale disciplina, non prevedendo un dies a quo “certo” di inizio del computo di decorrenza della prescrizione dell’azione di accertamento del credito tributario (e della decadenza della correlativa pretesa sanzionatoria, per effetto del rinvio operato dall’articolo 20, comma 1, D.Lgs. 472/1997), avrebbe il vizio di essere indeterminata e indeterminabile, ancorando tale decorrenza alla data di scoperta dell’omissione, ed esporrebbe illegittimamente il contribuente per un tempo indefinito all’azione accertatrice e sanzionatoria dell’amministrazione, a differenza di quanto previsto per altre primarie imposte, in relazione alle quali la decorrenza del termine prescrizionale coincide con la data di scadenza dell’obbligo inadempiuto.

Ci si riferisce in particolare a quanto previsto per le principali imposte erariali dall’articolo 57, comma 2, D.P.R. 633/1972, dall’articolo 43, comma 2, D.P.R. 600/1973 e dall’articolo 76, comma 1, D.P.R. 131/1986 (IVA, imposte sui redditi ed imposta di registro), le cui discipline – anche con riferimento ai soggetti passivi dotati di particolare “pericolosità fiscale” quali gli evasori totali, che non abbiano adempiuto agli obblighi dichiarativi su di essi gravanti – àncorano ragionevolmente la decorrenza del periodo entro il quale l’amministrazione può far valere le proprie pretese al momento specifico di consumazione dell’illecito omissivo.

L’“aporia” normativa di cui all’ articolo 57, comma 3, secondo alinea del TUA sarebbe ulteriormente avvalorata, come sottolineano le ordinanze di rinvio della Cassazione, dalla “contraddizione interna” presente nello stesso TUA, il cui articolo 15 – contenente la disciplina generale della prescrizione dei diritti di accisa – stabilisce attualmente , a seguito della radicale modifica recata dall’articolo 4 ter D.L.193/2016 (conv. in L. 225/2016), che “ Il termine di prescrizione per il recupero del credito da parte
dell’Agenzia è di cinque anni ovvero, limitatamente ai tabacchi lavorati di dieci anni
”, omologando la fattispecie omissiva a quella attiva, in rettifica del testo previgente riguardante il caso dei “comportamenti omissivi” che disponeva anche esso la fissazione del termine iniziale della prescrizione a partire dalla data della loro scoperta.

Alla luce di tali rilievi il giudice a quo ha ravvisato una possibile lesione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., in quanto la diversa disciplina contenuta nella norma censurata sarebbe frutto di discrezionalità immotivata e determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti, nonché una lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. in relazione all’assoggettamento a tempo indeterminato del contribuente all’azione accertatrice e sanzionatoria dell’Amministrazione finanziaria.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 200, depositata il 26 ottobre 2021 qui in analisi, ha accolto l’eccezione con la quale la Presidenza del Consiglio dei ministri ha sottolineato che la reductio ad legitimitatem auspicata dal rimettente postulerebbe un intervento manipolativo-additivo riservato alla discrezionalità del Legislatore in ordine alla individuazione dei mezzi più idonei al conseguimento di un fine costituzionalmente necessario (cfr. anche sentenza n. 151 del 2021). Per l’effetto la questione di legittimità costituzionale promossa dalla Corte di Cassazione è stata dichiarata inammissibile.

Ciononostante la Consulta ha in ogni caso riconosciuto come ineludibile un tempestivo intervento legislativo finalizzato a porre rimedio alla palese inadeguatezza del regime oggetto di analisi e di censura rispetto all’art. 24 Cost. mediante un adattamento degli istituti trasversali ai vari tributi, come la prescrizione e la decadenza, secondo gli specifici interessi di volta in volta coinvolti: secondo la giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenza n. 280 del 2005 e sentenze n. 247 del 2011 e n. 356 del 2008), infatti, la tutela costituzionale del diritto di difesa “impedisce di lasciare il contribuente assoggettato all’azione del fisco per un tempo indeterminato […], ancorché condizionata dal mancato compimento di una specifica attività posta dalla legge a carico del contribuente medesimo”. L’esigenza di certezza dei rapporti giuridici ha indotto la stessa Consulta ad avallare come costituzionalmente orientata l’interpretazione volta ad introdurre un termine prescrizionale determinato all’esercizio dell’azione di recupero dei tributi doganali (sentenza n. 247 del 2011) e di considerare essenziale la previsione di un preciso limite temporale per l’esercizio del potere sanzionatorio dell’amministrazione, in chiave di tutela dell’interesse soggettivo alla definizione della propria situazione giuridica (sentenza n. 151 del 2021).

In conclusione la Consulta ha così statuito: “… la norma censurata, identificando nella scoperta dell’illecito il termine di decorrenza della prescrizione del credito tributario – e della decadenza dalla pretesa sanzionatoria, per effetto del rinvio operato dall’articolo 20, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 – non individua in maniera certa il dies a quo di inizio del computo, così esponendo a tempo indeterminato il contribuente alle pretese del fisco, potenzialmente avanzabili anche a distanza di decenni dall’insorgenza dell’obbligo rimasto inadempiuto, in violazione dell’articolo 24 Cost.Ad aggravare il pregiudizio del diritto di difesa , quantomeno con riferimento al credito dell’imposta, concorrono l’esclusiva previsione di un termine di prescrizione – suscettibile, a differenza di quello di decadenza, di interruzione e, quindi, eventuale fonte di ulteriore indeterminatezza – nonché la circostanza che l’obbligo di conservazione documentale, funzionale a contraddire le pretese del fisco, sia previsto per un tempo molto più breve (artt. 2220 del cod. civ. e 8,  comma 5, della L. n. 212/2000 nonché l’articolo 15, comma 6 del TUA)”.

Tali assolutamente condivisibili censure “esortative” si confida possano essere tempestivamente accolte in sede legislativa, senza “scomodare” futuri interventi additivi o costituzionalmente orientati, le cui prime avvisaglie – nella perdurante inerzia del legislatore – si sono già manifestate a fine anno scorso (ci si riferisce in particolare alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 35903, depositata il 22 novembre 2021, la quale – nell’analizzare il previgente articolo 15, comma 1  del TUA, più sopra richiamato – ha stabilito che non ogni condotta omissiva può essere idonea a differire la decorrenza del termine prescrizionale previsto dal medesimo articolo. In particolare, il differimento del termine alla data della scoperta dell’omissione opera solo laddove la condotta omissiva sia riferibile – quantomeno a titolo di concorso – al soggetto passivo di imposta[1]).

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[1] In particolare, ha statuito la Suprema Corte che il differimento del termine è legittimo solo a fronte di “violazioni di obblighi di condotta posti da uno specifico parametro normativo”, e che “… non è dato rinvenire alcuna espressa indicazione di legge che identifichi come rilevanti le condotte contra legem di terzi soggetti…“. Tanto più che in materia di accise, si afferma nella pronuncia, il rapporto tributario intercorre esclusivamente tra il fornitore e lo Stato: sono dunque irrilevanti le condotte dei consumatori, legati al fornitore da un vincolo di natura privatistica, del tutto distinto rispetto a quello fiscale.

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