1. Con la circolare del 20 dicembre 2023 n. 31, Assonime ha analizzato le disposizioni chiamate a disciplinare le prime applicazioni del CBAM di cui si era discusso anche su questo sito [1]. In particolare, la circolare ha illustrato il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere soffermandosi, da un lato, sull’esame degli obblighi di comunicazione a cui le imprese sono tenute a conformarsi durante la prima fase di applicazione del Regolamento UE n. 2023/956 (c.d. periodo transitorio, decorrente dal 1° ottobre 2023 fino al 31 dicembre 2025), e dall’altro, sugli impatti economici della misura in commento e su alcune questioni aperte, come il ricorso presentato dalla Polonia alla Corte di Giustizia per l’annullamento del Regolamento CBAM.
Tralasciando la descrizione dei principali aspetti operativi (su cui la circolare Assonime è chiara ed esaustiva), appare interessante soffermarsi su alcune criticità del CBAM evidenziate nel documento in analisi, suscettibili di compromettere in radice l’applicazione del Regolamento o, quantomeno, di ingenerare un dibattito a livello europeo potenzialmente in grado di mettere in discussione alcuni dei pilastri fondamentali delle politiche perseguite dall’ Unione europea.
2. Innanzitutto, Assonime sottolinea come nonostante l’intento assai pregevole dello strumento introdotto dall’Unione europea – finalizzato ad incentivare gli operatori di Paesi terzi che esportano nell’UE ad utilizzare tecnologie a basse emissioni e incoraggiare gli stessi Paesi terzi ad adottare politiche climatiche e ambientali in linea con quelle europee –, il CBAM incontra il limite di dover essere compatibile con le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e con gli obblighi internazionali dell’UE, in forza dei quali occorre garantire che alle importazioni non sia riservato un trattamento meno favorevole rispetto ai prodotti interni e che non siano penalizzate le importazioni da particolari Paesi terzi. Proprio a questo fine, il CBAM – a differenza del sistema EU ETS [2] che il CBAM si propone di superare – non si configura come un meccanismo di cap and trade (consistente nella determinazione di un tetto massimo di emissioni nocive consentite in capo a determinati settori produttivi), in quanto l’imposizione di un tetto al numero dei certificati CBAM avrebbe comportato una restrizione quantitativa alle importazioni e una limitazione dei flussi commerciali, incompatibile con le regole OMC. Sempre sotto il profilo della non discriminazione tra produzioni europee ed extra europee, desta qualche perplessità la mancanza di correttivi per sostenere la competitività a livello internazionale delle imprese europee esportatrici che, diversamente dai concorrenti internazionali, sostengono i costi della politica ambientale dell’UE, rischiando tra l’altro, in un futuro non troppo lontano, di vedersi eliminate le assegnazioni gratuite di quote EU ETS. Anche dette misure di sostegno alle esportazioni, che pure sarebbero state importanti per le imprese europee, si sarebbero rilevate, con ogni probabilità, difficili da giustificare sotto il profilo della compatibilità con le regole OMC e, per tale ragione, sono state escluse dal Regolamento CBAM.
3. Inoltre, degne di considerazione risultano le osservazioni di Assonime sui requisiti necessari per ottenere lo status di “dichiarante CBAM autorizzato”, quale condizione propedeutica all’importazione di prodotti inquinanti ed in mancanza della quale sono previste peculiari conseguenze sanzionatorie. In proposito, Assonime correttamente richiede un intervento del legislatore nazionale finalizzato a precisare il contenuto di determinati requisiti; per esempio, sarebbe importante una più circostanziata definizione dei carichi pendenti che ostano al rilascio dell’autorizzazione in commento. Ciò al fine di evitare che anche iscrizioni a ruolo sospese o di modesta entità possano ostacolare le importazioni degli operatori economici. Più in generale, sembrano del tutto condivisibili le preoccupazioni di Assonime concernenti le svariate difficoltà che le imprese incontreranno nel soddisfare i requisiti per l’ottenimento dell’autorizzazione CBAM: a fronte della chiara volontà dell’UE di accentrare le autorizzazioni in capo ad un numero limitato e selezionato di soggetti pacificamente riconosciuti come affidabili, è ragionevole ipotizzare che le imprese che intendono rientrare in questo “club esclusivo” saranno chiamate a sostenere significativi oneri amministrativi e costi di compliance.
A ciò va aggiunto che per adempiere agli obblighi previsti già per la fase iniziale di applicazione del Regolamento e che si sostanziano in attività di mera rendicontazione sulle caratteristiche dei prodotti importati, l’efficacia del meccanismo CBAM si basa su un’effettiva collaborazione dei fornitori, i quali – per consentire di quantificare le emissioni inquinanti incorporate nelle loro produzioni – sono chiamati a rilasciare indicazioni precise sui loro processi produttivi. Nondimeno, a fronte di un obbligo informativo gravante in concreto sugli operatori extra UE, terzi rispetto all’applicazione del Regolamento europeo, la responsabilità per la mancata raccolta di tali informazioni e i conseguenti effetti sanzionatori sono destinati a ricadere sugli operatori economici europei (che ben poco potranno fare in caso di scarsa collaborazione da parte dei loro fornitori non residenti) esposti nei fatti, sotto il profilo sanzionatorio, a una forma di responsabilità per fatto altrui [3].
Ancora, occorre considerare che l’implementazione del CBAM potrebbe avere l’effetto di penalizzare, sul piano concorrenziale, le imprese a valle della catena del valore delle merci coperte dal Regolamento CBAM: gli operatori economici, quindi, potrebbero essere costretti a traslare sui consumatori il maggior costo dell’importazione di prodotti rientranti nell’ambito applicativo del Regolamento de quo.
La conclusione di Assonime, dunque, è nel senso di una “legittima la preoccupazione che il sistema CBAM si risolva in un meccanismo di difficile gestione che rischia di non conseguire lo scopo prefissato o di essere eccessivamente gravoso, sia per gli operatori che le per le amministrazioni statali” [4].
4. Altro tema di rilievo è quello della natura giuridica di tale meccanismo: sul punto, infatti, sono tutti abbastanza concordi nel ritenere che si tratti di uno strumento di carattere squisitamente fiscale [5]; ciò nonostante, esso è stato ricondotto dalle istituzioni europee tra le azioni volte a perseguire gli obiettivi della politica ambientale dell’Unione di cui all’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e per questo è stato adottato con regolamento; ciò allo specifico fine di poter deliberare a maggioranza qualificata, invece che all’unanimità, come una misura di carattere esclusivamente tributario avrebbe richiesto.
Il dibattito sulla natura giuridica del meccanismo di adeguamento del carbonio (e più in generale sulla sua stessa esistenza) è però tanto rilevante da aver addirittura indotto la Polonia a presentare un ricorso alla Corte di Giustizia dell’UE, ai sensi dell’art. 263 del TFUE, chiedendone l’annullamento integrale. Più in dettaglio, lo Stato ricorrente – che in sede di votazione del Regolamento CBAM si era espresso in senso contrario all’approvazione del Regolamento stesso – ha sostenuto che sia lo scopo che la natura delle disposizioni contenute nel Regolamento CBAM sono principalmente fiscali, in quanto istituiscono un nuovo onere pubblico che, a differenza del sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione (ETS), non risulta fondato sul libero mercato. La Corte di Giustizia UE, che non si è ancora pronunciata sul punto e la cui decisione è a questo punto attesa con impazienza, sarà dunque chiamata a spiegare se – ed eventualmente per quale ragione – la funzione di tutela ambientale del CBAM prevale su quella fiscale.
5. Ad ogni modo, a prescindere da quale sarà l’esito del giudizio dinanzi alla Corte di Lussemburgo, l’iniziativa della Polonia dimostra chiaramente che gli obiettivi di politica ambientale dell’UE sono difficilmente perseguibili anche se si ragiona all’interno del solo territorio europeo. Ciò con buona pace di tutti coloro (inclusa l’Assonime) che correttamente auspicano – per poter introdurre misure realmente efficaci ed ottenere effetti in qualche modo significativi – “una risposta politica coordinata a livello globale al problema dei cambiamenti climatici”.
In conclusione, la questione che resta aperta è se, nel contesto dato e in mancanza di alternative concrete, i costi che le imprese e gli Stati UE saranno inevitabilmente chiamati a sostenere per attuare il CBAM ed il loro impatto a livello macroeconomico potranno realmente essere considerati come una conseguenza inevitabile e giustificata rispetto agli obiettivi di politica climatica che l’Unione Europea si è prefissata di raggiungere oppure, all’opposto, si riveleranno sproporzionati ed eccessivi rispetto agli scopi prefissati.
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[1] Come osservato nel precedente articolo sul tema, il CBAM è un sistema volto a garantire una maggiore parità di condizioni tra i prodotti fabbricati nell’Unione europea e quelli importati da Paesi terzi sotto il profilo delle emissioni di carbonio. Nello specifico, a tale sistema è affidato il compito di evitare che le ambiziose politiche europee sulla decarbonizzazione siano di fatto rese vane dalle produzioni di altri Paesi che non prevedono il rispetto delle stesse regole ambientali. Come correttamente si legge nella circolare in commento, “in assenza, di un meccanismo globale di carbon pricing e di una risposta politica coordinata a livello internazionale al problema dei cambiamenti climatici, fino a quando i partner internazionali dell’Unione non adotteranno politiche caratterizzate dallo stesso livello di ambizione delle politiche europee, gli sforzi unilaterali compiuti dall’Unione per ridurre le emissioni possono essere vanificati da dinamiche di c.d. carbon leakage (i.e. rilocalizzazione delle emissioni di carbonio). Vi è difatti il rischio che le imprese europee nei settori industriali ‘carbon intensive’ trasferiscano la produzione verso Paesi con vincoli in materia di emissioni meno stringenti, oppure che i prodotti europei siano sostituiti da prodotti importati a più elevato contenuto di carbonio. Ciò può portare, da un lato, ad un aumento delle emissioni totali a livello mondiale, compromettendo l’efficacia delle politiche climatiche dell’UE e, dall’altro lato, ad innescare o favorire un processo di deindustrializzazione in Europa con complessi impatti sociali”.
[2] Si tratta, come noto, del sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea (EU Emissions Trading System) utilizzato per controllare le emissioni di inquinanti prodotte dagli impianti situati nell’UE, attraverso la quotazione monetaria delle emissioni stesse e il loro commercio tra Stati diversi. Detto sistema attualmente in vigore dovrebbe essere, nel tempo, integralmente sostituito dal CBAM.
[3] In questo senso, S. Armella, CBAM: un nuovo dazio ambientale sulle merci importate, in Corr. Trib., 1/2024, pag. 92, dove si sottolinea l’esigenza di aggiornare con urgenza i documenti contrattuali di fornitura e di verificare le informazioni rese dall’impresa estera sul proprio sistema produttivo, onde evitare che dati errati o falsi possano tradursi in responsabilità, giuridiche ed economiche, dell’importatore europeo.
[4] Degna di nota, in questo senso, la considerazione di C. Garbarino, L’introduzione del Carbon Border Adjustment Mechanism in EU ed Italia: aspetti operativi e profili critici, in Fiscalità e commercio internazionale, n. 12/2023, p. 5, secondo cui piuttosto che strumenti come il CBAM, sarebbero necessari strumenti in grado di limitare le emissioni di carbonio “a monte” e di modificare strutturalmente (mediante l’opportuna riconversione alle energie rinnovabili) gli attuali modelli di produzione basati sulla crescita economica e sui combustibili fossili e, quindi, fisiologicamente destinati a creare emissioni superiori alle soglie richieste. Nel contesto attuale, ad avviso dell’Autore, si crea solo l’illusione che “si stia facendo qualcosa”, addossando al contempo un “carico frizionale” agli operatori tenuti ad una serie di complessi adempimenti.
[5] Si rinvia, in proposito, alla nota 8 dell’articolo del 21 novembre 2023 “Le disposizioni attuative del regolamento Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) sulle importazioni da paesi non EU”, su questo sito, già richiamato nel testo. Sulla natura tributaria del meccanismo di adeguamento in esame si veda altresì A. Comelli, Profili europei della tassazione ambientale, in Dir e Prat. Trib., n. 6/2023, pag. 2264.