1. Con la sentenza del 26 agosto 2024, n. 23118 la Corte di cassazione, a quanto consta per la prima volta, ha esteso anche al settore delle accise l’applicabilità della nota giurisprudenza in tema di riparto dell’onere probatorio, nelle ipotesi di contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti ai fini IVA.
In particolare, quanto ai fatti di causa, nel giudizio in commento si discuteva dell’importazione di alcune partite di merce per le quali, a fronte della scoperta della falsità dei rispettivi documenti di accompagnamento (DAS), l’Agenzia delle Dogane constatava il mancato pagamento delle accise corrispondenti. In particolare, secondo l’A.F., i cedenti di detta merce sarebbero risultati delle cartiere e, pertanto, si poneva in capo all’operatore petrolifero – che con essi aveva intrattenuto relazioni commerciali – l’onere di pagare la relativa accisa.
Dal punto di vista processuale, dopo un primo grado favorevole all’Agenzia delle Dogane, l’appello si concludeva con esito positivo per il contribuente, sollecitando così la proposizione dell’impugnazione da parte dell’Avvocatura dello Stato.
La Corte di cassazione, nell’accogliere il ricorso di parte erariale, ha formulato il seguente principio di diritto:
“in tema di accisa non pagate sugli oli minerali importati da altri Stati senza assolvimento dell’imposta, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti l’esistenza di una frode, grava sulla stessa, ai fini dell’articolo 2697 del c.c., l’onere di provare, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, oltre all’elemento oggettivo (nella specie, importazione di partite di oli minerali con presentazione di documenti falsi in dogana), anche quello soggettivo, ovvero che l’acquirente era a conoscenza della frode o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale di operatore petrolifero; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sull’acquirente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’accisa, la diligenza qualificata esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, facilmente retrovertibili, né la mancanza di benefici dalla rivendita degli olii minerali, data l’entità del carico fiscale”.
Ebbene, la sentenza in commento rileva non solo per il principio di diritto che afferma, ma anche per la concreta applicazione dello stesso al caso di specie e per le conseguenze processuali che ne derivano. Di entrambi i profili si darà conto nel seguito.
2. Come anticipato, il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte ricalca, con ogni evidenza, l’orientamento ormai pacifico della giurisprudenza europea e nazionale in tema di riparto dell’onere della prova nel settore delle frodi IVA.
Come noto, infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che
“il beneficio del diritto a detrazione può essere negato al soggetto passivo solo se, dopo aver proceduto ad una valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, effettuata conformemente alle norme in materia di prova del diritto nazionale, è accertato che quest’ultimo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in una siffatta evasione. Il beneficio del diritto a detrazione può essere negato solo qualora tali fatti siano stati sufficientemente dimostrati con mezzi che non siano supposizioni (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2021, Ferimet, C‑281/20, EU:C:2021:910, punto 52 e giurisprudenza ivi citata). Se ne deve dedurre che l’autorità tributaria che intende negare il beneficio del diritto a detrazione deve dimostrare in modo adeguato, conformemente alle norme in materia di prova previste dal diritto nazionale e senza pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione, sia gli elementi oggettivi che provino l’esistenza dell’evasione stessa dell’IVA, sia quelli che dimostrino che il soggetto passivo ha commesso tale evasione o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in detta evasione” [1].
Allo stesso modo, anche nella giurisprudenza di legittimità, è oramai granitico il principio per cui
“in tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” [2].
Altrimenti detto, in caso di operazioni inesistenti, l’A.F. deve dimostrare, sulla base di elementi oggettivi, non solo che esiste una frode commessa dal fornitore, ma anche che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere della frode; solo laddove venga fornita detta prova, potrà gravare su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria. Inoltre, detta prova contraria non potrà consistere in elementi meramente formali, come la correttezza delle fatture e la regolarità dei pagamenti, perché inidonei a dimostrare l’effettiva buona fede del contribuente.
Gli stessi criteri sono stati ritenuti validi dalla Corte di cassazione anche nella fattispecie in analisi: la loro applicazione anche al settore delle accise è stata giustificata direttamente dalla Suprema Corte con la considerazione, da un lato, della natura non operativa dei soggetti venditori della merce contestata, tale da renderli assimilabili a vere e proprie “cartiere”, e dall’altro, della “considerevole affinità” con la disciplina delle operazioni inesistenti nell’IVA, quale imposta armonizzata analoga, sotto questo aspetto, alle accise [3].
Pur riconoscendo la chiarezza del principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte e la possibilità di interpretarlo alla luce di una copiosa giurisprudenza in tema di IVA, va osservato che la validità del parallelismo IVA/accise potrebbe a ben vedere essere correttamente valutata solo con una conoscenza più approfondita dei fatti di causa: dalla mera lettura della sentenza non è infatti possibile individuare la norma asseritamente violata e posta dall’Agenzia delle Dogane alla base della pretesa impositiva.
Eppure, detta individuazione sarebbe rilevante, atteso che, come si legge nella giurisprudenza comunitaria, solo in alcuni casi specifici la disciplina delle accise prevede che “sia debitore dell’accisa qualsiasi altra persona che ha partecipato allo svincolo irregolare di tali prodotti dal regime di sospensione dall’accisa e che, inoltre, «era a conoscenza o avrebbe dovuto ragionevolmente essere a conoscenza della natura irregolare dello svincolo»” [4]. All’opposto, esistono ipotesi diverse in cui la condizione della consapevolezza del debitore dell’accisa “assimilabile al requisito di un elemento intenzionale, non è stata ribadita dal legislatore dell’Unione” [5], tanto che, al fine di contrastare l’evasione nel settore delle accise e favorirne la riscossione, si è arrivati addirittura a prevedere forme di responsabilità oggettiva dei soggetti passivi dell’imposta. È il caso, per esempio, del depositario che, in forza della sua mera partecipazione ad un’attività economica, può essere considerato responsabile dell’eventuale svincolo irregolare dei prodotti detenuti in deposito, a prescindere da ogni colpa dimostrata o presunta [6].
In questo senso, quindi, si può ritenere che la previsione, da parte della Suprema Corte, di una rigida ripartizione dell’onere della prova – con attribuzione all’A.F. dello specifico compito di provare, oltre alla fraudolenza dell’operazione, anche la circostanza che il cessionario avrebbe ragionevolmente dovuto conoscere l’esistenza della frode –, si rivela conforme alla disciplina delle accise nella misura in cui si discuta di ipotesi in cui questa disciplina non ponga una responsabilità di tipo oggettivo in capo al soggetto passivo dell’imposta.
3. Passando invece all’esame del secondo profilo di rilievo, va appunto osservato che, oltre al principio di diritto precedentemente citato, è anche l’aspetto processuale ad apparire interessante nel caso di specie.
In particolare, dopo aver riepilogato le regole di riparto dell’onere probatorio nei termini poc’anzi esposti, la Corte di cassazione ha concluso nel senso dell’accoglimento del ricorso dell’Avvocatura dello Stato con rinvio al giudice di secondo grado affinché quest’ultimo provveda ad un ulteriore esame della questione, al fine di rispettare i criteri di riparto dell’onere probatorio definiti dalla stessa Corte in sede di formulazione del principio di diritto.
In questa prospettiva, la Suprema Corte, da un lato, ha ritenuto che i Secondi Giudici, nel richiedere all’A.F. la prova della consapevolezza del cessionario, non avrebbero adeguatamente tenuto conto della “conoscibilità secondo l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale di operatore petrolifero, ad esempio attraverso la dimostrazione della movimentazione della merce attraverso “cartiere” e mediante documenti di accompagnamento (DAS) irregolari”. Allo stesso tempo, i Giudici di seconde cure avrebbero sbagliato a ritenere assolto l’onere della prova contraria da parte della contribuente, basandosi semplicemente su elementi formali come la regolarità della contabilità della cedente, l’effettività dei pagamenti o il prezzo in linea con quello di mercato. Inoltre, il Giudice di legittimità ha escluso espressamente anche la rilevanza dell’argomento “della velocità delle transazioni commerciali messo in relazione con una asserita impossibilità di adeguato controllo del loro contenuto”, definendolo come “una considerazione eccentrica rispetto al canone probatorio, perché non in linea con la diligenza massima esigibile da un operatore accorto nel settore degli idrocarburi qual è la contribuente”.
Evidentemente, si tratta di uno dei pochi casi in cui la Corte di cassazione, rigettando l’eccezione di inammissibilità specificamente formulata dalla parte resistente, ha ritenuto di poter esaminare un motivo di ricorso basato sulla violazione dell’art. 2697 cod. civ., escludendo di star in tal modo procedendo ad una nuova valutazione delle prove dedotte in giudizio, con apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito [7].
Sul punto, la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione è invero chiara nell’affermare che la violazione del citato art. 2697 cod. civ. sussiste nella sola ipotesi in cui l’onere della prova sia stato addossato ad una parte diversa rispetto a quella su cui ricade, “cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni” [8]. All’opposto, detta violazione non ricorre laddove “oggetto della censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” [9].
Con riferimento alla questione in commento, quindi, sembra che il confine tra la violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio, suscettibile di esame in sede di legittimità, e la valutazione delle prove proposte dalle parti – che, all’opposto, comporta l’inammissibilità della censura – non sia stato superato dalla ricorrente Agenzia delle Dogane, avendo il Giudice di legittimità fondato, suo malgrado, la decisione su elementi puramente formali e, soprattutto, senza considerare adeguatamente la qualifica del contribuente quale operatore accorto del settore petrolifero; qualifica che, di conseguenza, avrebbe richiesto una diligenza maggiore nell’effettuazione dell’operazione.
A prescindere dalla condivisibilità o meno della conclusione raggiunta dalla Corte di cassazione e da ogni valutazione sullo specifico grado di diligenza richiesto al contribuente quale elemento principale di imputazione della responsabilità, la sensazione che resta dalla lettura della sentenza è quella di una certa labilità del confine tra motivo di ricorso ammissibile o meno. Detto confine, lungi dal poter essere cristallizzato in formule generali ed astratte (così come verrebbe spontaneo fare nella prassi operativa, limitandosi a replicare automaticamente i principi di diritto rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità), merita invece di essere applicato e valutato diversamente a seconda delle specificità dei casi di volta in volta sottoposti al vaglio dei Supremi Giudici, “secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto”, così come si legge appunto nel principio di diritto della sentenza de qua.
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[1] Si veda, per esempio, in tema di riparto dell’onere della prova, CGUE, sentenza del 1° dicembre 2022, causa C-512/21. Interessante il riferimento, nella motivazione della sentenza, anche alle limitazioni probatorie previste nell’ordinamento dei singoli Stati Membri.
[2] Così, ex multis, Cass., sent. del 20 aprile 2018, n. 9851; Cass., ord. del 5 settembre 2019, n. 22205. Nello stesso senso, Cass., sent. n. 23921 del 5 settembre 2024; nello stesso senso, cfr. Cass., 31 gennaio 2022, n. 2922; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; Cass., 20 aprile 2018, n. 9851.
[3] Si legge in detta sentenza che “sin dalla contestazione delle operazioni in evasione di accisa viene prospettato il fatto che le due danti causa sono mere cartiere, come pure vi è la necessità di valutare la posizione soggettiva della contribuente acquirente, in considerevole affinità con la contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti ai fini di IVA, anch’essa imposta armonizzata”.
[4] CGUE, sent. 10 giungo 2021, causa C-279/19, par. 29.
[5] CGUE, sent. 17 ottobre 2019, causa C‑579/18, punto 39.
[6] V., in tal senso, ex multis, CGUE, sent. 7 Settembre 2023, causa C-323/22, punto 56 e sent. 24 febbraio 2021, causa C‑95/19, punto 52. Per un commento in dottrina sulla responsabilità del depositario autorizzato, si rinvia a P. Giordano, La responsabilità del depositario autorizzato in caso di svincolo irregolare di prodotti soggetti ad accisa e gli abbuoni d’imposta: nota Cass. ord. 6 maggio 2022 n. 14361, in Tax News, 2023. Per mero dovere di precisione, si segnala che, nell’ordinamento italiano, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 504/1995 (TUA), in caso di svincolo irregolare, “l’accisa è corrisposta dalla persona fisica o giuridica che ne ha garantito il pagamento (…) e, in solido, da qualsiasi altra persona che abbia partecipato allo svincolo irregolare e che era a conoscenza, o avrebbe dovuto ragionevolmente essere a conoscenza, della natura irregolare dello svincolo”. Discostandosi dalla prevalente giurisprudenza comunitaria, quindi, la normativa italiana sulle accise collega la responsabilità del depositario alla consapevolezza, almeno potenziale, della natura irregolare dello svincolo.
[7] Cfr. sul punto, Cass., ordinanza n. 33532 del 20 dicembre 2024. Nello stesso senso, Cass., sent. n. 15266 del 2023; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 21 luglio 2010, n. 17097.
[8] Cass., n. 16598, 5 agosto 2016; Cass., sent. N. 22104 del 5 agosto 2024.
[9] Cass., sent. n. 20710 del 2024; Cass., sent. n. 26769 del 2018; Cass., sent. n. 13395 del 2018.