19/04/2023

La legge (art. 31 d. lgs. n. 199/2021) non prende posizione sulla natura giuridica delle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER), limitandosi a prevedere che si tratti di un “soggetto giuridico autonomo”. Tuttavia, alcune fondamentali caratteristiche delle CER delineate dal legislatore indicano che le tipologie ipotizzabili sono, essenzialmente, due[1]: l’associazione e la cooperativa. Ed infatti, ambedue sono o possono essere qualificate, sia pure in modo diverso, dall’obiettivo di “fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi soci o membri o alle aree locali in cui opera la comunità e non quello di realizzare profitti finanziari”.

La struttura associativa è senza dubbio più semplice e snella, specie nella forma dell’associazione non riconosciuta[2].

Le società cooperative, da parte loro, si prestano senz’altro anche alla gestione di CER più grandi e complesse[3] e le loro caratteristiche sembrano perfettamente rispondere a quelle fissate dal legislatore per quanto concerne il principio della porta aperta (ingresso e recesso libero dei soci) e l’assenza di lucro soggettivo [4].

L’esperienza sembra indicare – per lo meno in questi primi stadi di attuazione sperimentale – che mentre la struttura associativa è indicata a piccole realtà di aggregazione, la struttura cooperativa è più indicata quando si tratti di operare più ad ampio raggio, specialmente sotto forma di “cooperativa di comunità” (che come è un noto è una definizione empirica e non giuridica), per il raggiungimento di obiettivi articolati: si tenga presente, al riguardo, che la CER può perseguire anche finalità ulteriori rispetto a quella di autoproduzione di energia, come la promozione dell’efficienza energetica, la building automation, l’installazione e la gestione di colonnine di ricarica elettrica.

Se è così, ragionare sulla maggiore o minore efficienza fiscale della CER cooperativa rispetto alla CER associativa può sembrare di secondario interesse, essendo i moventi degli organizzatori e dei partecipanti di più ampia portata. Tuttavia, come si vedrà, questo ragionamento porta ad evidenziare che anche sotto il profilo fiscale il quadro normativo delle CER sembra tutt’altro che completo.

La più evidente differenza, rilevante anche ai fini fiscali, tra una associazione e una cooperativa risiede nella natura commerciale della seconda, quale società di capitali, natura che è solo eventuale e comunque secondaria nella prima.  Il che si traduce nel fatto che una associazione è qualificata come ente non commerciale ai fini dell’IRES e dell’IVA, mentre una cooperativa è comunque un soggetto passivo delle due imposte in quanto esercente attività commerciale. Le associazioni CER, va sottolineato, non svolgono un’attività commerciale ai fini IVA. Infatti, ai sensi dell’art. 119, comma 16 bis, d. l. 34/2020, “L’esercizio di impianti fino a 200 kW[5] da parte di comunità energetiche rinnovabili costituite in forma di enti non commerciali … non costituisce svolgimento di attività commerciale abituale” e, come noto, l’abitualità nell’esercizio dell’attività commerciale è un requisito essenziale della soggettività passiva IVA. Come si vedrà, in base a questa norma l’AdE conclude che le CER associazioni sono in ogni caso enti non commerciali, non assumendo mai l’impresa-CER esercitata natura prevalente[6]. Questa disposizione speciale naturalmente non si applica alle cooperative, per le quali dunque l’esercizio degli impianti costituisce “normale” attività commerciale.

Alla luce di questa premessa, consideriamo quanto affermato dall’AdE nella risposta ad interpello n. 37/2022 (dettagliatamente illustrata in questo sito https://www.fiscalitadellenergia.it/2022/02/24/il-trattamento-fiscale-delle-somme-corrisposte-dal-gestore-della-rete-alle-comunita-energetiche-rinnovabili-e-agli-autoconsumatori-collettivi/), fondamentale ai fini che ci interessano in quanto l’AdE esamina sia ai fini IVA che ai fini IRES i flussi economici e le attività delle CER.

Con riguardo alla tariffa premio incentivante e ai ristori di componenti tariffarie, l’AdE afferma trattarsi di erogazioni a fondo perduto con funzione incentivante e di riduzione del costo dell’energia autoconsumata, non aventi natura corrispettiva (cioè la CER non effettua, per percepire queste somme di denaro, alcuna cessione o prestazione). Ne deriva il non assoggettamento ad IVA per carenza del requisito oggettivo. Data tale causa di esclusione, ciò vale qualunque sia la natura commerciale o non commerciale (dunque sia per le associazioni che per le cooperative) della CER, anche se il documento di prassi si riferisce, qui come negli altri punti, alle sole CER non commerciali.

Per quanto riguarda poi il corrispettivo per la vendita dell’energia prodotta e immessa in rete che resta nella disponibilità del referente con facoltà di cessione al GSE (“Ritiro dedicato”), la risposta ad interpello è ambigua, o forse più semplicemente presenta un refuso in un punto decisivo. Ed infatti, non viene negata la natura corrispettiva di questa somma, ma si richiama l’art. 119 cit. sulla natura non commerciale dell’esercizio di impianti da parte di CER enti non commerciali e da ciò si argomenta l’esclusione da IVA anche delle somme in questione. Si tratta dunque di una chiara esclusione da IVA di tipo soggettivo, come tale non applicabile alle CER cooperative le quali dunque debbono assoggettare ad IVA tali corrispettivi. E ciò anche se, con riguardo ad essi, inspiegabilmente l’AdE conclude trattarsi di somme escluse da IVA “per carenza del presupposto oggettivo[7].

Anche ai fini IRES, sebbene sotto un diverso profilo, la questione dello svolgimento dell’attività commerciale assume una importanza dirimente.

Per le CER enti non commerciali, anche richiamando una precedente risoluzione riguardante i condomìni (ris. n. 18/E del 2021), l’AdE afferma la irrilevanza reddituale della tariffa incentivante e dei ristori tariffari (in quanto mere erogazioni) e la ricomprensione nell’ambito del reddito di impresa (effettuata in forma non abituale/prevalente[8]) dei corrispettivi per l’energia immessa in rete.

Naturalmente queste affermazioni non valgono per le CER cooperative, per le quali possono assumersi le conclusioni riferite nel citato documento di prassi ai referenti di gruppi di autoconsumo collettivo esercenti attività di impresa: nella sostanza, tutte le citate componenti positive rilevano ai fini della tassazione, essendo inoltre le prime due assoggettate a ritenuta d’acconto nella misura del 4% prevista dall’art. 28, comma 2, d.p.r. n. 600/1973 in quanto contributi corrisposti da un soggetto pubblico (GSE) ad imprese.

In conclusione di questo breve esame si può osservare che, data la innegabile piena rispondenza di ambedue i tipi di aggregazione degli autoconsumatori (associazione e cooperativa) agli obiettivi della normativa CER, una così palese distonia di trattamento fiscale non appare giustificata. Non può tuttavia che essere il legislatore, in base alle sue valutazioni, a dettare una opportuna parificazione, alla quale non sembra possibile giungere in via interpretativa.

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[1] Un’ulteriore ipotesi è che la CER sia costituita come consorzio; ed in effetti, il consorzio senza dubbio possiede la caratteristica della mutualità propria delle CER. Tuttavia al consorzio possono partecipare, secondo il tipo civilistico, solo soci imprenditori. La presenza di soci non tali (consorzi c.d. “misti”) è consentita solo nel caso in cui essi svolgano una funzione strumentale al raggiungimento delle finalità del consorzio, qualità che andrebbe attentamente verificata nel caso in esame.

[2] Per la quale, tuttavia, va valutata la idoneità a soddisfare sotto tutti gli aspetti il requisito della soggettività autonoma richiesta dal legislatore, data l’assenza di autonomia patrimoniale.

[3] Nella delibera ARERA 727/2022/R/EEL si prevede che la CER possa identificare una pluralità di sottoinsiemi, ciascuno afferente a un’area sottesa a una cabina primaria e ciascuno gestito separatamente, “per la valorizzazione dell’autoconsumo diffuso”.

[4] Nel presupposto, ragionevole, che l’assenza dell’obiettivo di realizzare profitti finanziari, come richiesto dal d. lgs. n. 199/2021, debba essere inteso come assenza del lucro soggettivo, cioè del fine lucrativo del socio e non invece come assenza del carattere lucrativo della società. Naturalmente, l’assenza del lucro soggettivo, fissata dalle clausole statutarie, caratterizza le sole cooperative a mutualità prevalente, che scambiano beni e servizi prevalentemente con i propri soci (artt. 2513 e 2514 cod. civ.).

[5] Il d. lgs. n. 199/2021 ha innalzato il limite di potenza degli impianti delle CER a 1.000 kW. Tuttavia questa disposizione non risulta, allo stato attuale, essere stata conseguentemente modificata.

[6] Invero questa estensione all’IRES della portata della norma non sembra del tutto scontata: se l’esercizio della CER ha natura intrinsecamente commerciale, come la norma eccezionale di esclusione in commento lascia chiaramente intendere, ai fini IRES per affermare la natura non commerciale dell’associazione non è sufficiente che l’attività sia qualificata non abituale. Ai sensi dell’art. 73, comma 4, TUIR, infatti, è necessario individuare l’oggetto principale dell’attività dell’ente, cioè l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari di legge e/o di statuto. E sembra difficile negare che l’esercizio della CER – attività commerciale, anche se non abituale – sia l’oggetto principale dell’associazione. Di qui la considerazione che se il legislatore intende – come sarebbe ragionevole – classificare come non commerciale l’attività anche ai fini IRES, la norma andrebbe riscritta.

[7] L’idea del refuso pare rafforzata dal riferimento, fatto nello stesso documento, all’ipotesi in cui il referente eserciti attività di impresa: in questo caso l’AdE afferma che il corrispettivo è soggetto ad IVA (in regime di reverse charge) in capo al referente medesimo. Si noti che nelle CER (di qualsiasi natura soggettiva) referente è la medesima CER. Il caso del referente terzo si verifica invece nella diversa fattispecie di gruppo di autoconsumo collettivo.

[8] Come accennato, per l’AdE la non abitualità dell’esercizio dell’impresa sancita dall’art. 119 cit. equivale a non prevalenza dell’attività commerciale ai fini fiscali della qualifica dell’ente.

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